Volontariato

Abbiamo bisogno di un salto di civiltà, non della leva obbligatoria

di Pasquale Pugliese


In questa tragica estate il ministro degli interni ha trovato anche il modo di intervenire, in maniera del tutto estemporanea e superficiale – come usa fare abitualmente – sul tema dell’obbligatorietà del servizio militare e di quello civile: “vorrei che oltre ai diritti tornassero a esserci i doveri” – ha detto il ministro in un comizio – “facciamo bene a studiare i costi, i modi e i tempi per valutare se, come e quando reintrodurre per alcuni mesi il servizio militare, il servizio civile per i nostri ragazzi e le nostre ragazze così almeno impari un po’ di educazione che mamma e papà non sono in grado di insegnarti”.

Da obiettore di coscienza al servizio militare finora non sono entrato nel merito delle sparate di Salvini sulla leva obbligatoria, che parla di questioni che non conosce, se non osservando che in nessuna democrazia il ministro degli interni si occupa delle forze armate, né si pensa di delegare all’esercito l’educazione: è quello che accade nei regimi totalitari. Tuttavia, poiché autorevoli ricercatori hanno preso sul serio le parole in libertà del ministro (come l’amico Giorgio Beretta su Unimondo), sollecitando interventi più strutturati, provo ad aggiungerne brevemente ancora qualcuna alle tante ragioni contro la leva obbligatoria già avanzate – anche dall’interno del governo – al ministro Salvini.

La prima. Il servizio militare obbligatorio in effetti ha un valore educativo: è una formazione di massa al militarismo, di cui il cosiddetto nonnismo – ricordato spesso in questi giorni – ne è una dimensione costitutiva e strutturale. La leva obbligatoria ha rappresentato per generazioni di giovani un rito di passaggio collettivo volto a trasformare i ragazzi in uomini, attraverso la disciplina militare, fondata sull’apprendimento all’uso delle armi, sulla sospensione della democrazia in caserma, sulla sottomissione a una ottusa gerarchia, sulla formazione dell’identità – personale e collettiva – inculcata in contrapposizione alla parallela costruzione del nemico. Nessuno ha nostalgia di questa scuola di socializzazione di massa alla violenza, subita ed agita.

La seconda. Non è vero – come pure alcuni hanno scritto – che il ritorno alla leva obbligatoria porterebbe con sé il ritorno all’obiezione di coscienza al servizio militare (e quindi, potenzialmente, ad una nuova coscienza antimiltarista) perché – se capisco bene la “proposta” del ministro – l’obbligatorietà sarebbe da svolgersi opzionalmente tra il servizio militare o quello civile. Per cui i tanti che non volessero consegnare un periodo della propria vita alla naja sarebbero obbligati a fare il servizio civile, senza passare da una impegnativa dichiarazione di obiezione di coscienza. Ossia, oltre al danno avremmo la beffa: il ritorno all’obbligo di leva (militare o civile) senza la possibilità di obiettare ad esso in nome della coscienza.

La terza. C’è il Servizio civile universale da avviare sul serio. Come dal 1985 ribadisce la Corte Costituzionale, il servizio civile è la modalità civile di assolvere al “sacro dovere” (che non vuol dire obbligo) di “difesa della patria”. Anche la recente sentenza numero 171/2018, con la quale la Suprema Corte ha respinto i ricorsi di Lombardia e Veneto contro il Servizio civile universale, ribadisce ulteriormente questo principio: “Con la sua sentenza” – ha commentato la CNESC (Conferenza nazionale degli enti di servizio civile) – “la Corte ha ribadito che il servizio civile è una forma di difesa civile e non armata della Patria sancita dall’art. 52 della Costituzione e pertanto rientra tra le materie di esclusiva potestà statale”. Si trovino dunque le risorse e le modalità organizzative per consentire davvero a tutti il diritto a svolgere il dovere di difesa del Paese, anziché lanciare improbabili ed estemporanee proposte di obbligatorietà.

Infine, per quanto riguarda la cultura della nonviolenza, non bisogna perdere di vista l’obiettivo finale della nostra azione: il superamento della guerra e degli strumenti che la preparano e la rendono possibile, ossia gli eserciti e le armi. In questo orizzonte “l’esercito di popolo”, di cui anche a sinistra alcuni vorrebbero nostalgicamente il ritorno, non sarebbe un passo in avanti ma – per le ragioni descritte brevemente sopra – una drammatica regressione culturale e politica. L’esercito professionale – che pure ha consentito la partecipazione del Paese a innumerevoli interventi militari, nel ripudio della Costituzione anziché della guerra – ha almeno il merito di escludere l’obbligo per tutti di imparare il mestiere delle armi. La difesa civile non armata e nonviolenta – promossa dalla campagna Un’altra difesa è possibile – è un passo nella direzione giusta. L’esercito di leva in quella sbagliata. La vera sfida, per noi, non è di rincorrere la destra sul suo terreno, ma di far avanzare culturalmente nel Paese e legislativamente in parlamento, il disarmo e la difesa civile, non armata e nonviolenta. Il vero salto di civiltà del quale abbiamo bisogno.

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