Welfare

A Vita l’uomo delle 5 mila imprese sociali

In Italia in occasione del X Workshop sull'Impresa Sociale, Jonathan Bland, padre fondatore del social business, parla di Innovazione Sociale, Big Society e della battaglia per il riconoscimento legislativo dell'impresa sociale nel Regno Unito.

di Ottavia Spaggiari

Un viaggio “lungo e complesso” è così che Jonathan Bland, presidente della Social Business International,  definisce il percorso che ha portato al riconoscimento da un punto di vista giuridico e politico dell’ “impresa sociale”, nel Regno Unito. Prima direttore dell’organizzazione  londinese Social Enterprise  e poi amministratore delegato della Social Enterprise Coalition, Jonathan Bland è considerato uno dei “padri fondatori” del concetto di “social business” nel mondo anglosassone. Oltre ad aver ideato e condotto la campagna grazie a cui è stato ottenuto il sostegno politico da parte tutti i partiti britannici a questo tipo d’impresa, Bland è anche membro del GECES, il Gruppo di esperti della Commissione Europea sull’imprenditoria sociale. L’abbiamo incontrato durante il suo soggiorno a Milano in occasione del X Workshop sull’Impresa Sociale organizzato da Iris Network. Martedì sarà al Teatro dell’Elfo a Milano, tra i protagonisti della giornata dedicata al social business: Il tempo dell’impresa sociale. Una scelta di sostenibilità per la cultura.

Si considera soddisfatto dei risultati ottenuti in merito al riconoscimento dell’impresa sociale nel Regno Unito?
Abbiamo ottenuto tanto ma è stato un percorso molto lungo e difficile. Tutto è iniziato alla fine degli anni novanta, con un gruppo di persone che decisero di unirsi per lavorare su un concetto condiviso di “impresa sociale”. Vi erano state alcune esperienze precedenti ma fu solo allora che si cominciò davvero a ragionare su cosa significasse “social business” e su quali soggetti potessero effettivamente farne parte. In quel periodo pensavamo che il neo-eletto governo Blair avrebbe guardato con interesse alle possibilità offerte dall’imprenditoria sociale. Purtroppo non fu così facile. Fu necessario articolare ulteriormente una definizione di questo tipo di impresa e capire quali fossero le politiche necessarie per la sua attuazione. Nei dieci anni successivi abbiamo lavorato molto duramente e dopo un certo periodo abbiamo iniziato ad avere un certo potere di influenza a livello governativo.
Inizialmente cominciammo a lavorare in maniera individuale con alcuni politici, stando bene attenti a non associare la nostra campagna a nessun partito politico in particolare, così durante il governo Blair, collaboravamo comunque anche con l’opposizione. Nel 2006 ci fu una svolta importante, quando portammo David Cameron e il suo governo ombra a visitare, in una sorta di tour, le principali imprese sociali del Paese. Riuscimmo a fare inserire la questione relativa all’impresa sociale nell’agenda politica del paese e per noi quella fu una grande conquista, dal momento che eravamo una lobby piuttosto piccola.  Sotto il governo Blair avevamo già ottenuto alcuni risultati importanti, per sviluppare un quadro politico favorevole a questo tipo di impresa. Tra questi ricordo l’istituzione di un fondo di 100 milioni di sterline per le imprese sociali operative nei settori dell’assistenza socio-sanitaria . Un altro risultato fondamentale è stata l’istituzione di una nuova forma giuridica per le imprese, la “community interest company”, cioè la società di interesse comunitario che utilizza una regolamentazione estremamente leggera. Dalla sua istituzione nel 2006 in Gran Bretagna sono nate 5 mila società di questo tipo, un risultato ottimo se si pensa che  nessuna di queste imprese prevede incentivi o sgravi fiscali. In questi anni abbiamo sicuramente portato avanti una lavoro di lobby e il governo inoltre ha preso alcune decisioni che hanno avuto un grosso impatto sul sociale nel nostro Paese, come ad esempio la creazione della Big Society Bank, dove circa 400 milioni di sterline provenienti da conti correnti dormienti, oltre ad altri fondi provenienti da banche private potranno essere investite nel sociale. Anche questo è sicuramente un risultato molto importante. Inoltre mi rendo conto che sempre più spesso, nel linguaggio comune viene utilizzato il termine  “impresa sociale”. Spesso ancora oggi, viene male interpretato, sicuramente ci vorrà tempo prima che entri a far parte del nostro vocabolario, come è stato per il concetto di “fair trade”, però è un buon inizio.

Crede che la Big Society di Cameron abbia aiutato la crescita dell’impresa sociale in Gran Bretagna?
La Big Society presenta un quadro politico in cui il governo gioca un ruolo limitato, affidando una crescente responsabilità alla società civile. Ciò può essere letto in una chiave estremamente positiva o molto negativa, poiché potrebbe rappresentare una scusa per tagliare delle risorse importanti, oppure un ottimo modo per dare ai cittadini la possibilità di elaborare soluzioni ottimali per le proprie esigenze. E’ un modello che è stato molto criticato, infatti il termine “Big Society” viene utilizzato sempre meno. Nonostante questo, ci sono alcune misure efficaci proposte da questo modello che difficilmente verranno messe in discussione dai governi futuri, come ad esempio il “community right to challenge”, dove la società civile ha la possibilità di sostituire il pubblico nella gestione di alcuni servizi locali, se non è soddisfatta. 

Si parla molto in questo periodo di innovazione sociale. Qual è il rapporto tra la “social innovation” e impresa sociale?
Non è una connessione automatica. L’innovazione sociale può essere presente in molti contesti diversi ma alcune imprese possono essere estremamente antiquate. Sicuramente il modello del social business può favorire l’innovazione se sussistono i giusti elementi. In Gran Bretagna abbiamo alcuni esempi di imprese sociali innovative nel settore dei servizi che, pur essendo di pubblica utilità, operano in modo molto diverso dal pubblico. Proprio la scorsa settimana ho visitato una struttura nuova gestita da un’impresa sociale londinese che accoglie i malati terminali di cancro. Pur offrendo un’assistenza adeguata ai pazienti,  non ha questa struttura nulla dell’ospedale. Il personale non è in divisa, il clima è molto informale e l’obiettivo di questo luogo è proprio quello di rappresentare una casa per i malati. Una delle persone si è trasferita lì con la figlia tredicenne e quando il dipartimento per la tutela dei minori ha telefonato all’amministrazione, mettendo in discussione il fatto che quella struttura potesse prendere in custodia una bambina, l’amministrazione ha semplicemente risposto che la bambina rimaneva sotto la tutela della madre. La struttura è semplicemente un luogo in cui vivere, serenamente in un momento così difficile della vita. A quel punto nessuno ha avuto più nulla da obiettare. Un altro paziente, negli ultimi mesi della malattia, si  è trasferito lì con il proprio cane, una cosa che non sarebbe mai stata possibile in ospedale. Io credo che questi siano alcuni esempi di innovazione sociale . Si tratta di una nuova cultura che non è costretta nelle regole, spesso troppo rigide, del settore pubblico. Il social business in molti casi permette all’innovazione di entrare nei servizi socio-sanitari, rendendoli spesso migliori per le persone.


 

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