Scuole di cittadinanza

A scuola ho imparato ad essere italiana

Ha 21 anni, è nata in Senegal e l'anno scorso è stata l'unica italiana tra i 50 finalisti del Global Student Prize. Mame Maty Gning si racconta: «Non è solo questione di lingua. A scuola ho imparato a sentirmi dentro la storia di questo Paese e non solo dentro il suo presente. Anche se c'è stato un momento in cui la cittadinanza non la volevo...»

di Sara De Carli

Nel suo sentirsi italiana c’entrano gli alpini, che quando frequentava la scuola primaria sono andati in classe e insieme ai bambini hanno cantato l’Inno di Mameli. E pure le lettere che il bisnonno di una sua compagna aveva scritto dal fronte, durante la seconda guerra mondiale: «I miei nonni sono in Senegal, ma attraverso quelle lettere anch’io sono entrata nel flusso della storia italiana. È qualcosa che ha lasciato il segno». Mame Maty Gning ha 21 anni, è nata in Senegal e vive in Italia, nei dintorni di Bergamo, da quando ha quattro anni. Ha la cittadinanza italiana da nove anni, si è diplomata con 100 e oggi frequenta il secondo anno di università a Torino, Business e Management. Lavora anche come coach di inglese. Nel 2023 è stata l’unica italiana tra i 50 finalisti del Global Student Prize di Chegg Inc e Varkey Foundation.

La sua passione per queste materie Mame Maty l’ha scoperta durante al Liceo delle Scienze Umane Maria Grazia Mamoli, dove ha incrociato Junior Achievement: oggi è nel board di JA Alumni Italy. Nell’ambito del programma “Impresa in Azione” la 4AL insieme ai propri docenti e ai coach di JA ha fondato una vera e propria mini-impresa di classe e progettato una escape room per rendere l’Accademia Carrara di Bergamo più accattivante per i giovanissimi: Mame Maty era l’ad. «Grazie a quel percorso ho scoperto me stessa», racconta. «Ho capito che le materie economiche e imprenditoriali sono quelle che fanno per me, ma – cosa ancora più importante – ho trovato la mia strada. Si è proprio sbloccato qualcosa in me. Prima tendevo sempre a dire “ci sono altri più bravi di me, facciano loro”, invece lì mi sono buttata e ho capito che anche io ero capace. Questo mi ha dato una sicurezza in me stessa incredibile». Il progetto arriva secondo alla Start Cup Bergamo 2022, aggiudicandosi il premio speciale della Fondazione Pesenti come startup con il maggiore impatto sociale. Mame Maty, insieme alla compagna di classe Navera Naved, originaria del Pakistan, è pure tra le cinque vincitrici del premio “Girls in Stem”, promosso da Coca Cola HBC Italia.

Quando sei arrivata in Italia?

Avevo quattro anni. Mio papà era qui già da qualche anno, poi ci siamo trasferiti anche mia mamma e noi tre fratelli. Abbiamo sempre vissuto in provincia di Bergamo, prima in montagna a San Giovanni Bianco, poi a Ponteranica, quindi in città.  

Cosa ricordi dei primi tempi in Italia?

All’asilo ero l’unica bambina con la pelle nera, mi sentivo quella diversa, strana. Un po’ mi sentivo io e un po’ mi ci facevano sentire. Le cose sono migliorate negli anni, quando acquisisci consapevolezza di te stesso, capisci qual è la tua identità e ne vai fiera: di certo non alle elementari o alle medie. Però devo dire che accanto ai pregiudizi ho incontrato anche tanti compagni aperti: di amicizie vere ne ho costruite tante.

Alle elementari una mia compagna ha portato in classe le lettere che il suo bisnonno aveva scritto alla famiglia durante la seconda guerra mondiale: anch’io così sono entrata nel flusso di quella storia

La scuola ha contribuito a farti sentire italiana, a costruire il tuo senso di appartenenza a questa comunità e la tua identità?

Sì, assolutamente, perché a scuola impari la lingua italiana ma anche la storia e la cultura. Ti confronti con compagni italiani, con le tradizioni italiane. Impari cosa significa cosa essere italiani. Per esempio quando abbiamo studiato la seconda guerra mondiale, una mia compagna ha portato in classe le lettere che il suo bisnonno aveva scritto alla famiglia. Per me è stato un momento forte, i miei nonni sono in Senegal, la storia della mia famiglia è là, ma per il fatto che la mia compagna ha condiviso quelle lettere io ho potuto entrare nel flusso della storia della sua famiglia. Mi è piaciuto molto. Un altro episodio che ricordo chiaramente è quando alle elementari, per i 150 anni dall’unità d’Italia, a scuola sono venuti gli alpini: ci hanno regalato una copia della Costituzione, ci hanno parlato della bandiera e insieme abbiamo cantato l’Inno di Mameli che le maestre ci avevano insegnato. Mi sono sentita parte di questa storia.

In sostanza ti sei sempre sentita italiana…

No, non è vero. Anzi c’è stata anche una fase in cui ho un po’ ripudiato l’dea di essere italiana. Se vediamo un americano o un francese, nessuno fa caso al colore della sua pelle: in Italia invece ancora non si accetta che un italiano possa essere nero. Il fatto che la gente pensi che “non puoi essere italiana se sei nera”, oltre al vedere tutte le difficoltà che ci sono per ottenere la cittadinanza, come se fosse un percorso ad ostacoli… mi ha fatto pensare che se essere italiani vuol dire discriminare le persone, allora io non voglio essere italiana. Per esempio la gente mi ha sempre detto, con sorpresa, “come parli bene l’italiano” e la mia testa rispondeva “ma è ovvio, sono italiana!”. Invece non era così. Poi però ho pensato ai tanti piccoli episodi che mi hanno fatto sentire italiana: sono italiana perché vivo qui, ho fatto le scuole qui, ho la mia famiglia qui. Alla fine ho capito che sono io a definire chi sono e che nessuno ha il diritto di dire che non sono italiana.  Io oggi dico che sono italo-senegalese perché mi sento anche senegalese.

È reale il fatto che tu senza i documenti non sei pienamente italiano, ma è reale pure il tuo essere italiano anche senza i documenti: non è solo un sentimento. È una cosa che capiscono solo i ragazzi di seconda generazione, come me

Hai la cittadinanza italiana da quando eri ancora preadolescente: pensi sia diverso per un ragazzino che sta costruendo la sua identità non avere la cittadinanza?

Prima di avere la cittadinanza, io potevo anche sentirmi italiana ma non lo ero davanti alla legge. C’è uno scollamento. Perché è reale il fatto che tu senza i documenti non sei pienamente italiano, ma è reale pure il tuo essere italiano anche senza i documenti: non è solo un sentimento. È una cosa difficile da spiegare. I miei genitori per esempio non lo capivano fino in fondo: lo capiscono solo i ragazzi di seconda generazione, come me. I miei ci tengono molto che io sia collegata anche alla mia cultura di origine, anche adesso in casa parliamo wolof: io li ringrazio di questo. Però come potrei dire di essere senegalese? In Senegal ci sono stata due volte, è dura. Non lo sai neanche tu di dove sei. Ti senti tutto e non sei nulla. È come stare in un limbo. Finalmente da grande ho capito che non devo scegliere, che una cosa non esclude l’altra e che posso essere tutte e due le cose.

L’estate scorsa sei stata l’unica italiana tra i 50 finalisti del Global Student Prize di Chegg Inc e Varkey Foundation. Cos’è per te la scuola?

Ho sempre cercato di tenere la mia media alta, perché i miei genitori mi hanno sempre fatto capire l’importanza della scuola per raggiungere i propri obiettivi e realizzare i propri sogni, ma anche per provare a migliorare la propria condizione e – perché no? – pure il mondo. Oggi lo penso anche più di prima… In Senegal è molto forte l’idea che l’istruzione ti dà potere, il potere di cambiare le cose. A un certo punto però ho capito che la scuola è anche scoperta: prima forse lo studio era soprattutto un mezzo per “arrivare”, poi è diventato un modo per scoprire me stessa e poter decidere chi sono e cosa voglio essere.

I miei genitori mi hanno trasmesso l’idea che l’istruzione ti dà potere, il potere di cambiare le cose. A un certo punto però ho capito che la scuola è un modo per scoprire me stessa e poter decidere chi sono e cosa voglio essere

Che cosa potrebbe aiutare le scuole a diventare ancora di più un luogo in cui un ragazzino costruisce il proprio essere cittadino? 

Bisognerebbe parlare un po’ di più delle altre culture, valorizzarle, parlare di cosa c’è fuori, della storia recente del mondo… Questo aiuterebbe le persone ad aprirsi e a scoprire che gli altri non sono tanto diversi da noi.

Che ne pensi dello Ius Scholae?

Dovrebbe essere approvato. Seguo il lavoro dell’avvocato Harry Sedu, vicepresidente dell’ordine degli avvocati di Napoli: la penso come lui. L’Italia perde una grande risorsa a non accogliere questi cittadini: scommette su di loro investendo risorse nel loro percorso di istruzione e poi lascia che se ne vadano… Bisogna dirlo chiaro: il fatto di non sentirsi riconosciuti, di non sentirsi parte reale della società… ti spinge a immaginare il tuo futuro lontano dall’Italia. Se non mi vuoi, me ne vado.

Dopo il percorso con JA, con la tua ex compagna di classe Navera Naved avevate fondato ValeU, un brand che propone abiti etnici, veli e hijab “rivisti” con un gusto più europeo e più giovane. A che punto siete?

Al momento il progetto commerciale è in pausa, i costi sono troppo alti. Il nostro focus è andare avanti con la parte sociale, ci piacerebbe fare un podcast in cui dare voce a ragazzi di seconda generazione, uno spazio in cui possano esprimersi.

Questo articolo fa parte della serie “Scuole di cittadinanza”.
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