Non profit

A scuola di managementLa formazione “sociale”cambia pelle

il tema del mese Nuovi percorsi per nuovi profili professionali

di Redazione

Cresce l’impresa sociale e cambia l’identikit del cooperatore. Più formato, in possesso di laurea e diplomi di specializzazione. Un vero e proprio professionista del servizio alla persona. L’ultima indagine Icsi, per ora riferita ai soli operatori, smentisce lo stereotipo di una forza lavoro poco qualificata e valorizzata, ma dice di più: è la stessa cooperazione che investe su strategie formative precise e differenziate.

Deficit culturale
Ma il punto è: questo sforzo economico risponde alle nuove esigenze del mercato? «Tra le imprese, la cooperazione è quella che spende di più in formazione», spiega Valerio Luterotti, direttore di Federsolidarietà. «Il problema è che si investe su paradigmi vecchi. Adesso l’evoluzione dell’impresa sociale richiede pacchetti di alta formazione, incentrati su figure manageriali capaci di progettare, coordinare e gestire reti, ma la risposta per ora è ancora insufficiente».
I dati Istat riferiti al 2001 e al 2003 (non sono disponibili ancora quelli del 2005) sembrano confermare questa insufficienza: nelle cooperative sociali cresce sempre di più il numero degli operatori, che raggiungono quote del 70%, a scapito delle figure apicali sempre meno rappresentate. «Questo è un settore giovane, ancora legato al pubblico. E per questo sconta un deficit culturale nella concezione manageriale del servizio», afferma Paola Menetti, presidente di Legacoopsociali. «In più resiste ancora una visione operativa ed esperienziale della qualifica professionale».

Coop chiama ateneo
Tuttavia, negli ultimi anni stanno crescendo le collaborazioni tra la cooperazione e il mondo universitario con l’obiettivo di creare percorsi formativi diversi e più in linea con la nuova domanda del mercato. Praticamente tutte le facoltà più importanti d’Italia hanno organizzato master e corsi di specializzazione post laurea: una trentina in tutto, di stampo prettamente economico e incentrati sui temi della gestione e amministrazione di impresa.
«La crescente esigenza di figure manageriali ha convinto una buona fetta di cooperazione ad abbandonare il vecchio modello della formazione on the job per puntare sulle università e sul modello di training accademico», spiega Paolo Fontana, responsabile formazione dell’Issan.« Dove la collaborazione tra le due realtà è storicamente più radicata, l’esperimento ha avuto successo perché ha confezionato un’offerta di alta qualità in linea con la domanda espressa dal settore. Così, grazie anche all’apporto organizzativo dei consorzi, è stato più facile inserire le nuove figure all’interno degli organici».
Finora la più alta percentuale di ricaduta occupazionale si è avuta nel Nord-Est, dove la rete tra cooperazione e università è attiva da tempo. Qui gli inserimenti superano il 50% degli iscritti ai master.
Ma c’è di più; crescono anche i corsi di specializzazioni per soli dirigenti interni, con l’obiettivo di migliorare l’approccio alle nuove sfide del mercato. «In questi casi ha sicuramente influito la famigliarità degli atenei con il mondo dell’impresa», spiega Luterotti.«Università come la Bocconi lavorano da tempo con le aziende e riescono a percepire in tempo reale le vere esigenze formative. In più, qui ci sono esperienze felici di gestione di cattedre e facoltà da parte della cooperazione. E questo è sicuramente un grande vantaggio».

Tutto all’interno
Per il resto, invece, si continuano a preferire modelli di formazione interni, fondati sull’esperienza. «La spinta identitaria frena spesso l’ingresso di personale esterno e si preferisce investire su chi già ha metabolizzato certe dinamiche», spiega Antonio Benedetti, responsabile formazione del consorzio Cgm. «Nonostante questo, negli ultimi anni si sta cercando di cooptare professionisti provenienti anche da altre realtà, ma rimane comunque il timore che la futura svolta imprenditoriale possa influire sulla specificità del settore».
Anche i numeri dell’Icsi evidenziano come sia soprattutto l’esperienza pregressa nel settore uno dei principali criteri di selezione delle risorse umane. E questo ovviamente influisce anche sulla domanda di formazione.
«Al Sud», spiega Paolo Venturi, direttore di Aiccon, «la richiesta è incentrata sulle competenze e sulle strategie di graduale allontanamento dal pubblico. Al contrario, nel Nord si sta investendo molto sull’identità, come risposta alla graduale autonomia che la cooperazione si sta conquistando in relazione al mercato pubblico e al vecchio ruolo di mero esecutore istituzionale». Ma tale tendenza, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto dirigenziale,«sta portando al graduale invecchiamento dell’età dei quadri direttivi che ormai superano i quarant’anni di media?», aggiunge Sergio D’Angelo, vicepresidente di Legacoopsociali. «Negli ultimi anni però si intravede una possibile svolta legata a due fattori: la nascita di collaborazioni tra università e cooperazione anche nel Sud, che proprio per la sua giovane età potrebbe arrivare con più facilità a un cambiamento culturale profondo, e il ricambio generazionale causato dall’esperienza del servizio civile, che sta portando giovani preparati all’interno delle organizzazioni. Puntare più massicciamente sui percorsi di inserimento di queste figure potrebbe ridare nuova linfa al settore».

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