Si è da poco concluso il social enterprise open camp co-organizzato da Opes Fund e Consorzio Nazionale Cgm e che quest’anno si è tenuto sull’isola di San Servolo a Venezia. Un’iniziativa che “lascia il segno”, soprattutto se si sanno cogliere gli intrecci tra gli elementi di diversità che la contraddistinguono. O, usando un’immagine evocata in questa edizione, se si è disposti a lavorare sui con-fini da intendersi come punti di contatto e di contaminazione reciproca ma anche come terreno d’incontro per elaborare (e soprattutto perseguire) finalità comuni.
Quali sono quindi le linee di confine che si sono intrecciate? E quale visione d’insieme ne scaturisce?
Il primo intreccio è tra attori diversi, non sconosciuti – attivisti, imprenditori sociali, professionisti, policy makers – ma che si radunano in un’arena inedita un po’ per tutti e cioè quella dell’impatto sociale. Ben lungi dal risolversi solo in un set di strumenti di valutazione (come purtroppo sta succedendo), l’impatto sociale rappresenta prima di tutto un framework culturale che se adottato in modo autentico sollecita tutti gli attori a cambiare: la finanza, l’impresa sociale, la filantropia, ecc. Un mutamento che si misura nella capacità di ridefinire le proprie azioni e le proprie relazioni con i contesti avendo come riferimento la sfida socioambientale che è sotto gli occhi di tutti.
Il secondo intreccio è quello intergenerazionale, dove emerge in modo piuttosto chiaro la presenza di un nuovo attivismo, soprattutto giovanile e glocale, che prende voce e azione non solo dentro comunità phygital informali e dai confini identitari intenzionalmente permeabili, oppure in nuove startup tecnologiche vocate a varo titolo al sociale, ma anche in una “next generation” di imprenditori e manager sociali che all’interno di imprese strutturate agisce un ruolo di change maker per far fare un salto di qualità alle loro organizzazioni di appartenenza come imprese a impatto.
Il terzo intreccio è quello di un’iniziativa che mischia diversi formati: seminario, workshop, programma culturale, momenti ricreativi, cibo, informalità. Tutte queste componenti sono ugualmente rilevanti contribuendo a fare dell’open camp un’esperienza “immersiva” e generativa per percorsi professionali, processi di cambiamento organizzativo, coprogettazioni innovative, ecc.
Quali lezioni si possono trarre da questi intrecci a volte progettati e a volte “semplicemente” abilitati? E cosa ci restituisce questa capacità dell’open camp di generare un terreno comune (common ground) fatto di significati, approcci e competenze orientate in senso impact?
In primo luogo che non bastano accompagnamenti tecnici e strumenti di design e accelerazione dell’innovazione se questi ultimi non sono in grado di sostenere capacità di conversazione e di confronto che mobilitano aspirazioni al cambiamento attraverso azioni autenticamente cooperative.
In secondo luogo che l’enfasi sull’azione dal basso non può disgiungersi dall’attenzione alle dinamiche che agiscono in senso top down, ad esempio per quanto riguarda gli schemi di governance e di certificazione degli standard ambientali e soprattutto sociali dai quali dipenderà l’esito della transizione verso un nuovo paradigma di sostenibilità ambientale e giustizia sociale.
Infine che il tema della crescita è dirimente: lo scaling dell’innovazione sociale sembra avvenire attraverso un equilibrio, ancora da modellizzare, tra capacità di produzione in proprio e capacità di operare all’interno delle value chain dell’economia tradizionale. In definitiva qualcosa in più rispetto alla produzione di nicchia e qualcosa di (ben) diverso dal maquillage sostenibile e inclusivo che rischia di alimentare ulteriormente i meccanismi di estrazione, e non di condivisione, del valore.
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