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A proposito della sentenza della Corte di giustizia Ue su Ici per Chiesa e non profit. I nostri errori

Ci troviamo spesso a dover rincorre per via giudiziaria oppure per ogni singolo provvedimento, interventi di tutela e o di promozione della specificità degli enti dell’economia sociale religiosi o laici: è successo per l’IVA agevolata delle coop sociali, per le regole di concorrenza per coop di consumo, per le Banche di Credito Cooperativo, per le imposte sugli immobili degli enti non commerciali e degli enti religiosi. Ecco come cambiare

di Giuseppe Guerini

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, di cui molto si scrive e discute in questi giorni, impone all’Italia di recuperare l’ICI, dalla Chiesa Cattolica, secondo la semplificazione di molti medi, sembra offrire il fianco per l’ennesima polemica anti europea. Titoli e articoli dei mezzi di informazioni che, sempre sono più interessati a cavalcare le onde emotive delle polemiche, piuttosto che a scavare nei contenuti del senso delle cose, stigmatizzano i soliti “euro-burocrati” incapaci di comprendere il valore delle opere sociali. Con il risultato tanto comodo per la politica e italiana quanto inutile per gli interessi dei cittadini, della Chiesa Cattolica Italiana e dell’intero terzo settore, di individuare sempre un colpevole lontano da Roma e dalle nostre responsabilità.

Già! Perché la sentenza non colpisce solo la Chiesa Cattolica, ma coinvolge tutto il Terzo settore poiché riguarda il recupero delle imposte comunali sugli immobili da cui erano stati esentati gli enti non commerciali tra il 2006 e il 2011.

Al netto di questa prima precisazione, quello che occorre sottolineare è che la Corte di Giustizia non fa altro che applicare la legge per come gli Stati Membri l’hanno adottata e approvata. Troppo frequentemente sentiamo ripetere le frasi, ormai tanto ossessivamente ripetute quanto ampiamente distorsive sulle “imposizioni di Bruxelles”, sui burocrati della Commissione Europea, sulle ottuse norme europee. Quello che sempre si omette di precisare è che per come funziona il procedimento legislativo europeo ogni norma che entra in vigore, segue un lungo procedimento legislativo che termina sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea solo e soltanto dopo l’Approvazione del Consiglio dei Ministri Europei. Cioè dopo essere state approvate dai Capi di Governo degli Stati membri dell’Unione.

In particolare le norme in materia fiscale richiedono che l’approvazione sia all’unanimità! Quindi ciascuna delle norme fiscali, o delle norme che riguardano le regole di bilancio, comprese quelle sul patto di stabilità, sono state adottate all’unanimità, con il voto dei Capi di Governo, non con quello dei Commissari Europei, che devono invece seguirne l’attuazione.

Prima di approdare al Consiglio Europeo, i provvedimenti, seguono un lunghissimo percorso che parte dalla Commissione e passa dal Parlamento e che può durare, per le normative più complesse anche 2 o 3 anni. Durante questo lungo cammino ci sono estenuanti lavori di commissione, riunioni di tecnici, dibattiti e anche poderosi studi di valutazione d’impatto. Documentazione tutta sempre disponibile sui siti delle istituzioni europee, purtroppo spesso soltanto in lingua inglese o francese, almeno durante le fasi di lavorazione.

Questo meccanismo mette in evidenza già dove andrebbero ricercate le falle e gli errori che hanno portato alla situazione di cui oggi si piangono (con lacrime di coccodrillo) le conseguenze.

Inutile accusare la Corte di Giustizia che applica le leggi per come sono state approvate, inutile battere pungi sui tavoli o strofinare con la suola delle scarpe le carte di un Commissario, se durante gli anni precedenti non si sono seguiti i lavoro oppure non si è rappresentato con adeguata chiarezza e supporto documentale e metodologico la specificità, nel caso concreto, del ruolo economico e sociale svolto dalle organizzazioni del terzo settore e dalle opere realizzate dalle comunità parrocchiali o dagli enti religiosi a beneficio della collettività.

Tutti noi sappiamo e troviamo immediatamente evidente che una scuola d’infanzia parrocchiale o di un istituto religioso, magari gestita in un quartiere difficile oppure in un piccolo paese della provincia, così come una RSA o una Comunità di accoglienza per disabili svolgono un servizio di interesse generale e di pubblica utilità. Tutti noi sappiamo che questi servizi, per quanto possano avere un valore economico rilevante non sono servizi che si realizzano in un mercato pienamente libero e competitivo. Non fosse altro che perché liberi e competitivi non sono i cittadini che ne beneficiano soprattutto in molte aree disagiate oppure perché sono persone bisognose, nel caso ad esempio dei servizi per persone senza fissa dimora. È chiaro quindi che rimaniamo un po’ sbalorditi se ci limitiamo a leggere che la sentenza vuole “fare giustizia” sulle regole di libera competizione e concorrenza nel mercato. Ma il problema non è prendersela con la Corte di Giustizia o con la Commissione Europea. Ma cercare di capire come sono state negoziate e costruite le leggi che questa è chiamata a giudicare nella loro attuazione.

Per altro occorrere aggiungere che la Commissione Europea una “mediazione” politica specifica per l’Italia l’aveva trovata, chiedendo appunto di interrompere l’esenzione ma sollevando il nostro Paese dall’onere di recuperare le tasse perse negli anni compresi tra il 2006 e il 2011. Una mediazione che teneva giustamente conto del fatto che nel 2012 aveva riconosciuto come corretto e adeguato il sistema di esenzioni e la nuova regolazione che il Governo italiano aveva allora impostato e che oggi è in vigore.

Correttezza che, come rileva giustamente Avvenire in un articolo del 6 novembre, la Sentenza non solo sancisce chiaramente ma: ”dice che la vecchia “guerra delle tasse” sugli immobili che sono luoghi di culto o sede di opere senza scopo di lucro della Chiesa cattolica, di altre religioni e di realtà laiche è proprio finita. E questo perché la Corte di Giustizia Europea sancisce l’adeguatezza del nuovo e inequivocabile sistema di regole e di esenzioni della tassazione sugli immobili, l’IMU, introdotto nel 2012”.

La domanda che ci dobbiamo da fare è: dove erano o dove avevano la testa i nostri Governi quando hanno adottato quelle regole sulla concorrenza? Dove erano quando si sono stabilite le regole del mercato unico? Erano lì ed hanno votato, ma hanno pensato prima di tutto al mercato, alle opportunità delle imprese, alla libera circolazione delle merci e delle persone. Tutte cose fondamentali di cui il nostro Paese ha beneficiato e che hanno contribuito a far crescere molte nostre imprese.

Quello che è mancato è stata la capacità di riconoscere e valorizzare una specificità italiana straordinaria, che è la lunga e consolidata storia dell’economia sociale italiana, dalle Misericordie alle Parrocchie, dagli Istituti religiosi fino alle cooperative sociali a rappresentato. Per troppo tempo la politica italiana ha trascurato e per certi versi continua oggi a trascurare il ruolo fondamentale che Enti del Terzo Settore ed Enti Religiosi hanno svolto e svolgono come componente imprescindibile del sistema sociale, di servizi, educativo e sanitario del nostro Paese.

La politica è stata per troppo tempo abituata a dare per scontato questo sistema, da non considerarlo affatto o se lo ha considerato lo ha fatto in modo superficiale, dimenticandosi completamente di introdurre specifiche attenzioni e tutele nei percorsi di legislazione europea.

Ci troviamo così spesso a dover rincorre per via giudiziaria oppure per ogni singolo provvedimento, interventi di tutela e o di promozione della specificità degli enti dell’economia sociale: è successo per l’IVA agevolata delle cooperative sociali, per le regole di concorrenza per cooperative di consumo, per quelle dei pescatori, per le Banche di Credito Cooperativo, per le imposte sugli immobili degli enti non commerciali e degli enti religiosi.

Questa continua azione di rimessa è conseguenza della mancanza di una traduzione delle cornici di riferimento e del sistema di valori nella stesura e nell’applicazione delle leggi. Eppure almeno in Italia un riferimento fondamentale c’è nella Costituzione che riconosce in modo netto la sussidiarietà e il ruolo delle formazioni sociali e altrettanto chiaramente quello delle Cooperative per la loro Funzione sociale, lo fa anche la Riforma del Terzo Settore, ma poi mancano le linee di contatto e coordinamento col resto delle norme.

Sussidiarietà e ruolo delle “formazione sociali” sono concetti che si ritrovano anche nei Trattati istitutivi dell’Unione Europea, ma che evidentemente non sono abbastanza interiorizzati da chi poi si trova a definire e tradurre i principi generali in regolamenti e leggi.

È accaduto anche recentemente in Italia con il parere del Consiglio di Stato in materia co-progettazione e più in generale sull’utilizzo degli strumenti, derivanti dall’art. 55 del d.lgs. 117/2017 (Codice del Terzo Settore) sull’affidamento di servizi mediante le procedure di cosiddetta “Co-Progettazione, che la riforma del terzo settore ha proposto di implementare per favorire una piena valorizzazione degli ETS come partner della Pubblica Amministrazione, trovando una via per uscire dalla logica che assoggetta questi enti ed erogatori di servizi (vedi qui il servizio di Vita.it).

Il Parere del Consiglio di Stato è ineccepibile , come la Sentenza della Corte di Giustizia Europea, nell’applicare le norma, ma in entrambi i casi quello che difetta è la capacità delle istituzioni e certamente anche da parte nostra, come Enti di Terzo Settore, di mettere in evidenza la specificità e la netta differenza che consiste nel regolare relazioni, che seppure hanno contenuto economico rilevante, sono orientate all’interesse generale e devono potersi sviluppare con una specifica e apposita cornice di reciproco riconoscimento, che è completamente diverso dalle norme per regolare mere operazioni di mercato e di concorrenza.

La riforma del terzo settore è stata impostata su un giusto binario e va fatta camminare in quella direzione, aggiustando anche altri riferimenti normativi per metterla in coerenza: quatto ani fa quando di apri il percorso sostenni che la vera riforma del terzo settore si sarebbe compiuta modificando il codice degli appalti, il diritto societario, il sistema della Pubblica Amministrazione.

L’Unione Europea, ha aperto alcuni dossier sul tema dell’economia sociale, ha varato un pilastro europeo dei diritti sociali dimostrando che possono esserci le condizioni per fare un lavoro importante e costruire un modello diverso di Europa, per questo è di fondamentale importanza che anche questa vicenda, non venga utilizzata per l’ennesima inutile e strumentale polemica contro i burocrati dell’Unione Europea, ma che ci serva da lezione affinché i politici che si impegneranno a rappresentare l’Italia nel prossimo Parlamento Europeo, così come i Ministri che interloquiscono con Commissione e Consiglio Europeo si mettano a studiare ed approfondire i temi, abbassino il livello di polemica, e innalzino quello di competenza.

Ma soprattutto si smetta di pensare che quando si approvano regole a Bruxelles e a Strasburgo queste poi possano sempre essere reinterpretate o aggiustate “all’italiana”. Per cambiare l’Europa occorre esserci dentro, partecipare assiduamente ai lavori, faticare e negoziare fino allo stremo delle forze, perché la dove si prendono decisioni all’unanimità battere pugni sul tavolo o mostrare pettorali gonfi è quanto mai controproducente.

La sentenza della Corte di Giustizia ne è la manifestazione plastica concreta. Peccato che a pagarne le conseguenze saranno cittadini italiani e Chiesa Cattolica, evitiamo almeno che su questo a lucrare siano i politici che hanno contribuito con le loro assenze o distrazioni, scaricando la colpa sulle istituzioni europee.

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