Cultura

A passage to Italy: viaggio fra i nostri stranieri

di Luigi Maruzzi

Lui è un giovane africano che insegna inglese a Milano. Mi ha chiesto se potevo procurargli del materiale per progredire easy nella lingua del Paese ospite . . . .

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«La verità è che i luoghi dove si ha pianto, dove si ha sofferto, e dove si trovano molte risorse interne per sperare e resistere, sono proprio quelli a cui ci si affeziona di più» (Giorgio Bassani, Gli ultimi anni di Clelia Trotti, p.158 – racconto inserito in “Cinque storie ferraresi”, Torino 2010, con postfazione di E.Affinati).

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Lui è un giovane africano che insegna inglese a Milano. Mi ha chiesto se potevo procurargli del materiale per progredire easy nella lingua del Paese ospite. Io mi sono fatto sfuggire un sorriso ironico. Era dai tempi del militare che non ricevevo una richiesta simile, da quando cioè davo lezioni a Marcello (autista del Generale) che costringevo a misurarsi con tracce assurde e fantasiose.

Forse, oggi non ci sono più ragazzi italiani che chiedono questo scambio di amicizia.  Bisogna cambiare nazionalità dei protagonisti per osservare uno scenario profondamente diverso. La “Scuola di Penny Whirton” fondata e gestita dallo scrittore Eraldo Affinati e dalla professoressa Anna Luce Lenzi (sua moglie) ha saputo inventarsi un luogo, un metodo, una poetica del trasferimento linguistico per stranieri di ogni età e condizione. Affinati ne parla nel suo libro “Elogio del ripetente”, pubblicato da poco. Lavorare per giovani ‘difficili’, con la statistica condanna ad una prospettiva di fallimento, si oppone nettamente al calcolo di convenienza che spesso accompagna le scelte professionali di persone molto valide. Perché “… educare significa ferirsi, ripristinare i luoghi del nostro incontro, rendere accogliente la casa verbale del pensiero, stabilire la pace dopo la guerra” (p.46). Se poi si è convinti dell’importanza decisiva della lingua – “come se parlare e scrivere fossero acqua, pane e vino” (p.117) – allora certi sacrifici possono perfino diventare normali.

Quello che si sta sperimentando nella capitale non è un’esperienza isolata. Anche altri si sono posti il problema di come dare una risposta concreta e organizzata a quei ragazzi che non devono superare solo lo scoglio linguistico, semplicemente perché sono privi di tutto. In provincia di Pavia (a Suardi) conosco una comunità che si occupa di minori italiani e stranieri che non possono contare sulla guida di figure parentali di riferimento, fornendo loro un contesto educativo e formativo che traguarda l’autonomia dei singoli ragazzi (http://mulinodisuardi.blogspot.it/). Per dare un’idea delle difficoltà che un educatore deve affrontare in una comunità con queste caratteristiche, basta pensare alle molteplici situazioni di provenienza: fra chi, analfabeta nella lingua madre, ha imparato a tenere la penna fra le dita scrivendo in italiano; chi non parte da un alfabeto latino e scrive da destra a sinistra; e chi, ancora, è dovuto passare dagli ideogrammi alle vocali. La descrizione (presa a prestito dallo stesso Affinati, p.71) restituisce un quadro abbastanza realistico di quanto succede nella comunità di Suardi. E se le difficoltà generate dai problemi di ordine linguistico sono così impegnative, possiamo solo immaginare quali sforzi occorra mettere in campo per le altre attività, da quelle più strettamente legate alla dimensione del vivere assieme a quelle di facilitazione della crescita individuale. Eppure, dalle ultime notizie ricevute, sembra che le preoccupazioni non riescano a prendere il sopravvento (una mail del 6 settembre chiude con “Comunque più o meno tutto Ok”).

A cominciare dalle fondazioni filantropiche (Monte di Lombardia, Vodafone, Comunitaria della provincia di Pavia e CARIPLO), sono molte le istituzioni che hanno creduto nel progetto e non hanno fatto mancare il loro sostegno, ma – intendiamoci – il ruolo di pioniere sociale è un’altra cosa e, come spesso accade, tocca ad altri. Per raccontare la storia di come sia nata la Cooperativa Famiglia Ottolini di Suardi non servono tante parole: la spiegazione sta tutta nel suo fondatore (Don Anselmo). Chi ha speso gli anni più ricchi di vigore tra i giovani ed i ragazzi dell’America Centrale si è accorto – in anticipo sui tempi – che le terribili condizioni già conosciute di persona stavano riprendendo forma, proprio qui in Italia. L’incontro con alcuni volontari (un tempo, anch’essi cooperanti) ha permesso che l’intuizione facesse strada per arrivare fino a noi. Certe scelte richiedono coraggio. Ma per superare i momenti più critici che attraversa la realizzazione di un’idea, occorre Cultura, quella che travalica le consunte categorie dei ruoli e del bene confezionato, quella che sa leggere il cuore di un uomo prima di qualsiasi somministrazione psicologica. Per convincere i ragazzi che siamo una comunità e che ci sono delle regole da rispettare “dobbiamo essere credibili. Uomini e donne che hanno compiuto una scelta tagliando, dentro di sé, non soltanto i rami secchi, ma anche qualche tralcio fiorito. Cose che avrebbero potuto fare, invece hanno deciso di interrompere” (Affinati, p.73). Il debito morale che sento di avere nei confronti di Don Anselmo (e di altri uomini di chiesa un po’ fuori dagli schemi) resta saldamente legato alle passioni di oggi: spero di non estinguerlo mai.

 

NOTE

Per una testimonianza multimediale sulla “Scuola di Penny Whirton”, è possibile visionare un filmato accessibile da questo stesso sito: http://www.vita.it/vita-channel/penny-wirton-una-scuola-cos.html .

E quando deciderete di acquistare in libreria il volumetto di Affinati (Elogio del ripetente), cercatelo direttamente nella  sezione “Didattica”, altrimenti rischiate di uscire a mani vuote se il commesso non è sufficientemente smart.

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