Non profit

A Milano occhi aperti sugli artisti senza muro

Fino al 23 dicembre la collettiva GlocalArt2

di Marina Mojana

Alla Fabbrica del Vapore, esplosioni di libertà tradotte in foto e installazioni. Opere sorprendenti di otto giovani dell’Est Europa, allievi dell’Accademia di Brera Nell’agosto del 1989, tre mesi prima che l’annunciatrice di Aktuelle Camera (la televisione di Stato) comunicasse ai cittadini della Repubblica democratica tedesca le nuove disposizioni per gli espatri temporanei e anche definitivi dalla Germania dell’Est, Zane Kokina aveva 7 anni e viveva in Lettonia. Oggi ricorda quell’estate di 20 anni fa come un momento straordinario: «Ero in autostrada con la mia famiglia, ci siamo fermati e per la prima volta mi sono trovata in mezzo a una folla di gente che voleva unirsi e lottare per qualcosa; ero presente a un evento che stava cambiando la nostra storia. Due milioni di persone di tutte le età, nazioni, appartenenze sociali e religiose si tenevano per mano creando una catena viva di 600 chilometri che attraversava l’Estonia, la Lettonia, fino alla capitale della Lituania. Questo gesto di solidarietà e di lotta non violenta è stato il simbolo dell’unità dei popoli di tre Paesi baltici».
Quella catena umana, chiamata Via Baltica, oggi dà il titolo a una fotografia che Zane espone alla Fabbrica del Vapore di Milano fino al 23 dicembre nella collettiva GlocalArt2. In mostra ci sono una trentina di altre opere di otto giovani artisti “senza muro”, selezionati da me con l’aiuto di Svitlana Grebenyuk. Provengono tutti dall’ex impero sovietico e sono accomunati dall’avere scelto l’Accademia di Brera come luogo dove fare crescere il loro talento d’artista. Sono nati in terre lontane come la Yakutia, una vasta pianura abitata da sciamani, al confine tra Siberia e Mongolia, da dove arriva Alexandra Nikolaeva, classe 1979: «Oggi nel mio Paese c’è molta corruzione, ma il passato ha costruito il nostro presente e adesso dipende da noi come sarà il futuro». Idee? «Con i miei risparmi comprerò una telecamera, tornerò in Yakutia e girerò un video di denuncia».
Il muro che non c’è più è il filo conduttore della mostra, un filo sia ideologico che fisico. Da un lato le opere esposte sembrano i pezzetti di un caleidoscopio, vetri multicolori che vanno in tutte le direzioni senza più freni né barriere; dall’altro nessuna installazione in mostra è appesa alle pareti, ma appoggiata ai totem sparsi nell’ambiente, quasi a suggerire un’esplosione di schegge colorate e impazzite, come la loro libertà. «La libertà che ho adesso c’era anche in Armenia, ma non era cosi forte nei colori: qui in Italia mi sembra tutto più vivo e profumato», commenta Liana Ghukasyan, l’artista più giovane, che aveva tre anni nel 1989 e 23 quando arriva in Italia. Le fa eco l’uzbeco Camolgion Boboev, classe 1978: «Qualsiasi tipo di muro crea nella mente di una persona un grande desiderio di libertà: nella mente dell’artista, invece, diventa un grande bisogno di creare libertà. Per me e per la mia famiglia la caduta del muro di Berlino è stata innanzitutto la possibilità di essere noi stessi».
«È bello che ogni tanto cadano i muri», interviene la 30enne ucraina Irina Kats, «ma un muro di fame continua a dividere questo mondo. Mi piacerebbe abbassarlo almeno di un millimetro e che i prodotti alimentari smettessero di essere un sogno, o soltanto un’immagine, per tante persone».
Giovani artisti senza nostalgia, ma non privi di memoria, come Andrei Maksimjuk di Tallin, capace di snocciolare a memoria i nomi e cognomi dei segretari generali del Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione Sovietica dal 1922 al 1989. I muri cambiano e le sfide continuano. Anche quella del fotografo russo Egor Jagunov, classe 1984, che in Fabbrica del Vapore porta Scudo, un’installazione di otto immagini per dire che lontani e vicini siamo tutti “prossimi”, legati gli uni agli altri: «Per me l’ombrello rotto è come l’anima divorata, la sua fine è la superbia messa a nudo, ma anche la strada della redenzione».


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