Mondo

A mani nude contro l’odio

Missione di pace “Io vado a Pristina” è sul campo. Ecco il racconto del primo gruppo: le persone, gli incontri, i contatti in vista della presenza del corpo civile di pace

di Redazione

Il Gruppo pilota di ?Io vado a Pristina? è in Kosovo. Lisa Clark, don Albino Bizzotto, Maria Carla Biavati, Alberto Capannini e altri volontari di ?Beati i costruttori di pace? e ?Operazione Colomba? sono arrivati a Pristina per stare accanto alla popolazione e gettare le basi per il corpo civile di pace scaturito dalla nostra iniziativa. Pubblichiamo il loro diario dei primi giorni di permanenza.

19 giugno, sabato

La prima città che abbiamo raggiunto è stata Pec, la sede del comando delle forze italiane. La città è in condizioni terribili, interi quartieri ridotti ad ammassi di scheletri di case, bruciati, anneriti, deserti. Pec è abbandonata, vuota. Gli albanesi se ne erano già andati all?inizio della guerra, i serbi se ne sono andati pochi giorni fa, ripetendo una scena già vista nella direzione opposta: file di macchine stracariche di masserizie dirette verso Belgrado. La desolazione regna sovrana, e tra le poche persone rimaste violenze, odii e vendette sono il pane quotidiano. Si spara per le strade, dai tetti. Al nostro arrivo veniamo accolti dalla notizia di tre serbi uccisi a sangue freddo, giustiziati perché sospettati di aver fatto parte dei corpi paramilitari. A Pec ci siamo incontrati con il patriarca ortodosso Pavle, che nasconde nel suo palazzo 200 serbi che chiedono di essere scortati dalla Kfor in Serbia perché temono per la loro vita. Il problema è che le forze multinazionali sospettano che tra tanti poveracci si nascondano anche alcuni criminali di guerra, mascherati da disperati. Si tratta di ricercati che hanno tutto l?interesse a rimanere uniti alla gente comune, quindi cercano di sobillare gli altri ospiti del patriarcato, gli infondono il terrore di allontanarsi, per poter rimanere insieme.

20 giugno, domenica

Percorriamo 15 chilometri di strada verso est, e arriviamo a Djurakovac, una città dove i serbi sono rimasti in gran numero, almeno rispetto a Pec. Ci saranno almeno 3000 persone tra abitanti della città e dei villaggi, e stanno tutti insieme, asserragliati in un quartiere, senza mai uscire. Qui la Kfor, composta da soldati olandesi, ha lo stesso problema degli italiani a Pec: non sanno se lasciar partire la gente in massa o fare delle ricerche all?interno per individuare eventuali colpevoli di omicidi e violenze. Quando, nel pomeriggio, arriviamo a Prizren, andiamo subito a trovare il vescovo cattolico albanese Marko Sopi. Gli chiediamo com?è la situazione, e lui, con nostra sorpresa ci dice che gli albanesi sono fin troppo euforici per la ?vittoria?, una euforia che forse andrebbe calmata ricordando gli orrori accaduti fino a ieri, anzi non ancora finiti. Ci racconta poi, e sottolinea con forza, storie di riconciliazioni accadute durante la guerra tra l?uno e l?altro gruppo etnico: cita il monastero ortodosso di Decani, dove i monaci serbi nascondevano gli albanesi per metterli al riparo dalle bande paramilitari. «La Chiesa albanese è grata, infinitamente grata a questi fratelli serbi per quello che hanno fatto» ci dice monsignor Sopi. Ce ne andiamo pensando che l?umanità vera se non viene soffocata può vincere anche sull?orrore.

22 giugno, martedì

Siamo a Vitina, a 12 chilometri dal confine macedone. Questa è la casa di padre Lush Gjergj, il sacerdote albanese dell?associazione Madre Teresa che da dieci anni si batte per la riconciliazione in Kosovo. Per lui sono i primi giorni di libertà: per tutta la durata della guerra infatti è dovuto rimanere nascosto in casa, senza poter comunicare con l?esterno. In Italia si era anche temuto per la sua vita. Incontrarlo per noi è una grande emozione e una gioia. «Qualche giorno prima dei bombardamenti», ci racconta padre Lush, «Sono andato dal Pope ortodosso per supplicarlo di agire, di dire una parola alla sua gente invitandoli alla calma e alla tolleranza. Ma lui aveva paura delle ritorsioni degli emissari del regime, e non se l?è sentita di uscire allo scoperto. Allora ci ho provato io. Una sera sono venuto a sapere che in un santuario qui vicino ci sarebbe stata una cena con alcuni ufficiali serbi, e ci sono andato. Erano tutti soldati altamente addestrati, inviati con i loro militari per uccidere. Le loro istruzioni erano terribili: fare piazza pulita degli albanesi. La loro testa era piena di bugie: gli avevano detto che gli albanesi erano tutti terroristi e assassini. Io ho chiesto subito del loro comandante, un capitano, e lui ha accettato di parlarmi. Gli ho spiegato che gli abitanti di Vitina e del Kosovo non erano come credeva lui. Che c?erano padri di famiglia, donne, bambini, vecchi, proprio come in Serbia, come in qualunque altra parte del mondo. Sul momento non mi ha risposto, ma il giorno dopo è andato in paese, ha visto le case e ha incontrato la gente. E so per certo che se a Vitina non sono stati compiuti massacri e non ci sono fosse comuni è merito suo. So anche che ha contribuito a tenere i paramilitari lontani da questa zona. Un giorno l?ho visto con i miei occhi dare un pugno a un suo soldato che voleva incendiare una casa. I suoi uomini ci minacciavano, certo, ci costringevano a stare tappati in casa, ma non uccidevano. Così in tanti ci siamo salvati». Padre Lush sostiene che la guerra non è ancora finita, soprattutto nella mente delle persone. «Alla metà di maggio la gente era come impazzita, si pensava che la guerra sarebbe durata all?infinito e nessuno riusciva più a ragionare. È stata una follia collettiva. Su 320 famiglie del paese, 300 sono fuggite in Macedonia, senza sapere dove andare, ma qualunque posto era meglio del Kosovo in quei giorni. Sì, è stata una pazzia. Io stesso non so come ho fatto a resistere». Una pazzia che ha avuto anche alcuni momenti di commozione e di solidarietà umana. Come quando un vecchio di 77 anni di un paese vicino, morente per le botte ricevute da un serbo, ha voluto accanto a sé padre Lush per confessarsi e prima di tutto gli ha detto che perdonava i suoi aggressori. Altro esempio, quando è morta suor Attilia, una anziana religiosa albanese molto amata, e tutte le donne serbe sono andate in chiesa a piangerla. «Adesso la situazione si è rovesciata e sono i serbi a volere andare via» conclude padre Lush. «Ma io dico: se non avete niente da rimproverarvi, restate. L?ho detto anche al capo della polizia, spero che lui riesca a convincerli».

24 giugno, giovedì

Entriamo finalmente a Pristina. È pomeriggio. La città è animata, piena di gente, tra cui molti stranieri dell?Onu e delle organizzazioni non governative. La situazione è esattamente opposta rispetto al tempo di guerra: adesso sono i pochi serbi rimasti in città che hanno paura delle bande albanesi e non escono di casa. Le autorità comunali serbe resistono, ma sono assediate nel municipio e non possono lavorare. Le uniche autorità riconosciute nel resto del Kosovo sono esponenti dell?Uck, alle frontiere invece non c?è nessuno, nessun posto di blocco o dogana. Il Kosovo è un territorio senza legge. Abbiamo incontrato di nuovo il sindaco che avevamo già visto a maggio, è sempre ottimista sul futuro, ma pare che sia l?unico. Per le strade sono tornati gli albanesi, con i loro mercatini e i negozietti volanti fatti sulle cassette di frutta. Ma il problema non è alimentare (ci sono tantissimi aiuti da tutto il mondo) quanto politico e morale: la convivenza non c?è più, i due gruppi ormai si odiano e non riescono a vivere insieme. Anche il nostro compito non sarà facile, perché gettare semi di pace o fare da ponte in questa situazione di autosegregazione delle due etnie è difficile. Mancano ancora i presupposti per far incontrare le persone.

25 giugno, venerdì

Questa mattina partecipiamo alla riunione delle organizzazioni non governative con rappresentanti dell?Onu e delle agenzie umanitarie. Sono riunioni a scadenza fissa, mattino e sera. Obiettivo: guardarsi in faccia e scambiarsi idee e osservazioni sul da farsi. Perché quello che manca davvero in questa fase è un?organizzazione capillare, resa complicata dal fatto che sono del tutto assenti degli interlocutori, delle autorità che possano prendere decisioni. Il sistema giudiziario, per esempio, è a pezzi e la criminalità cresce, sia quella comune sia quella ?politica?, delle vendette incrociate. La polizia è sparita. I telefoni funzionano solo qui nella capitale, e neppure tutto il giorno. Altrove le comunicazioni sono impossibili se non con il satellitare. La normalità ci sembra molto lontana.

26 giugno, sabato

Oggi siamo stati al campo dei profughi serbi delle Krajne. La loro situazione umana è forse la più drammatica nell?inferno del Kosovo, perché nessuno li vuole. Esuli da anni, sono serbi che sanno parlare soltanto serbo, quindi non si avventurano fuori dal campo perché non sanno chiedere neppure un po? di pane in albanese. E l?albanese ora è l?unica lingua ammessa a Pristina.

27 giugno, domenica
Alcuni di noi, cioè i ragazzi dell?Operazione Colomba, hanno deciso di andare a vivere a Peja, un villaggio abitato solo da serbi. Lì conosciamo una famiglia disposta ad ospitarci praticamente finché lo vorremo. Desideriamo condividere con il gruppo che ora è più perseguitato, cioè quello serbo, la situazione di difficoltà che deve sopportare. Semplicemente vogliamo far loro compagnia senza chiedere niente in cambio, in attesa che arrivino i volontari che comporranno il corpo civile di pace. Intanto cercheremo anche di rafforzare i rapporti già esistenti con l?Onu, le agenzie umanitarie, le ong (abbiamo visto ad esempio gli italiani di Intersos), e le istituzioni locali. Perché, come ripetiamo sempre pensando alle persone che incontriamo, ?la nostra vita non vale più della loro?.

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