Oggi, ho ricevuto molte mail da amici che polemizzano sull’iniziativa francese in Mali (a cui hanno aderito, con modalità diverse, alcuni Paesi europei come l’Italia). Sono osservazioni provocatorie che offrono lo spazio al confronto e al dibattito, dunque non vanno assolutamente bollate, quasi fossero una sorta d’eresia pacifista. A questo proposito, mi permetto di condividere alcune considerazioni che, almeno in parte, ho già espresso su questo Blog.
Anzitutto, è bene ricordare che nel 2011, quando si trattò di intervenire in Libia, l’intelligence francese entrò in contatto con i gruppi tuareg che erano al soldo del regime di Gheddafi. Col risultato che l’allora presidente Sarkozy avrebbe chiesto ai tuareg dispiegati nel deserto meridionale libico – secondo diffuse indiscrezioni trapelate dai circoli diplomatici africani e pubblicate sulla stampa francese lo scorso anno – di scaricare Gheddafi, in modo che fosse catturato, con la promessa di un deciso sostegno nella lotta di liberazione della regione settentrionale maliana dell’Azawad. La presenza in Francia, nel 2011, di almeno quattro portavoce del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) spinge a considerare che il governo francese della vecchia amministrazione “Sarko” non fosse del tutto estraneo alle vicende maliane. Detto questo, sebbene solo un piccolo numero di tuareg abbia aderito al jihadismo (lo Mnla ha sempre manifestato una visione laica della politica e lo stesso possiamo dire della maggioranza dei tuareg che non condivide l’imposizione della Sharia, la legge islamica) nell’Azawad è avvenuta una commistione tra varie formazioni armate, alcune delle quali, quelle fortemente jihadiste di matrice salafita, hanno preso il sopravvento. A ciò si aggiunga il fatto che il governo di Bamako è in una situazione di grande debolezza, ostaggio di gruppi d’interesse militari e politici, in forte disaccordo tra loro.
Al di là dell’evoluzione del conflitto maliano e delle sue conseguenze, ancora una volta emerge la necessità di operare un sano discernimento sulle modalità con cui affrontare la minaccia del terrorismo di matrice islamica. Anzitutto, sarebbe ora che l’Europa cominciasse a ragionare su quello che c’è effettivamente dietro questa escalation di violenze, non solo nel Mali, ma anche su altri versanti come quello somalo o afghano. A parte le ricchezze del sottosuolo di regioni geostrategiche come l’Azawad di cui sopra (fonti energetiche in primis), è evidente che il movimento salafita, responsabile di tanti disastri, continua ad essere lautamente foraggiato dai sauditi. Ora viene spontaneo chiedersi, come mai l’Occidente nel suo complesso (Europa e Stati Uniti) continuano ad essere così servili nei confronti della casa reale Wahabita? In effetti, tornando indietro nella storia, si scopre che, alla fine della seconda guerra mondiale, Franklyn Delano Roosvelt e il re saudita Abdul al Aziz decisero un “affare” che tuttora condiziona negativamente l’intero scenario Mediorientale e più in generale minaccia la pace mondiale. L’America, a quei tempi, ebbe l’oro nero a prezzi convenienti e la corona saudita, in cambio, ottenne forniture belliche per sopprimere ogni forma di dissidenza. Sta di fatto che sebbene oggi tutti sappiano che questo Paese è la vera culla del fondamentalismo e dell’estremismo islamico più intransigente, Washington e Bruxelles fanno finta di niente. Ma non è tutto qui.
Credo sia sufficientemente chiaro, guardando alle esperienze del passato, che gli interventi militari non possano essere assolutamente risolutivi nello scontro asimmetrico contro il terrorismo e il jihadismo più in generale. Gli invisibili cacciabombardieri o i droni di ultima generazione, come anche altre sofisticate tecnologie belliche, non possono rispondere adeguatamente alla necessità di affermare la Pace e la Giustizia su scala planetaria. Sarebbe auspicabile, pertanto, che fossero riconsiderate, sia le procedure decisive degli organi internazionali (spesso messe di fronte al fatto compiuto), sia la risposta alla minaccia terroristica (dato che quella sinora utilizzata è riuscita solo a farla, paradossalmente, incrementare a dismisura). Emblematico è il caso maliano che porta ancora una volta alla ribalta la questione del ruolo, da un lato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dall’altro dell’Unione Europea (Ue), istituzioni internazionali, queste,che si sono trovate a dover prendere atto dell’azione d’oltralpe. Peraltro, l’iniziativa francese nei confronti della grave crisi del Paese africano ha provocato immediatamente il coinvolgimento di altri Paesi come l’Algeria, con la vicenda di ieri degli ostaggi. Per non parlare degli alleati occidentali chiamati, inequivocabilmente, a dare sostegno all’azione di Parigi. E naturalmente, nella nostra vecchia e goffa Europa, è alle stelle il timore per possibili azioni terroristiche in supporto ai ribelli jihadisti del Mali.
Ecco che allora, dal mio modesto osservatorio, sono sempre più convinto che si debba decisamente cambiare modo di fare politica; non più come cani sciolti, ognuno per conto proprio, ma in modo organico, nell’interesse della “Res publica” dei popoli. Non basta dire: “Siamo direttamente interessati dalla crisi in Mali e non possiamo restare indifferenti”, come ha fatto oggi l’Alto rappresentante dell’Unione Europea, Catherine Ashton, secondo cui “la comunità internazionale è unita” a sostegno del popolo del Mali. Sì, quasi a parafrasare il nostro vecchio proverbio, “A ‘Mali’ estremi, estremi rimedi”. Ma, la questione è un’altra! Quale politica l’Europa intende perseguire in Africa? Siamo davvero convinti che il continente non possa essere più considerato, come in passato, “terra di conquista”? Quali iniziative diplomatiche ha davvero messo in cantiere l’Europa per promuovere le relazioni con l’Africa in materia di sviluppo, commercio, cooperazione? Per il momento, un po’ tutti i governi europei si muovono guardando, solo e unicamente, ai propri interessi domestici e manca una visione d’insieme. Dulcis in fundo, vorrei ricordare che sarebbe importante che l’Europa fugasse ogni dubbio sulle reali intenzioni di Parigi. Chi pagherà, ad esempio, la protezione offerta al Mali, contro gli estremisti islamici? Questo intervento armato francese non può rappresentare, ancora una volta, il pretesto per procrastinare nel tempo il “neo colonialismo” di cui la “Françafrique” è stata un’espressione eloquente. L’Europa è in grado di offrire garanzie a questo riguardo? Ecco perché credo che questa crisi maliana debba necessariamente rappresentare l’occasione per mettere in discussione un indirizzo politico e militare, quello occidentale in generale ed europeo in particolare, che finora si è rivelato fallimentare.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.