Non profit

A lezione di francese.

Volontari allo sbaraglio da noi, da loro invece professionisti che non perdono il posto se decidono di partire. E poi una legge che sostiene i progetti di sviluppo e non solo l’emergenza.

di Carlotta Jesi

«Complimenti per il Nobel». Venerdì scorso, mentre Jaques Chirac e Lionel Jospin dichiaravano insieme alla televisione francese quanto fossero soddisfatti per il riconoscimento concesso da Oslo a ?Medici senza Frontiere? e la ministra per gli Affari Sociali Martin Aubry chiamava di persona i dirigenti dell?organizzazione nell?ufficio di Parigi, nella sede romana di Msf è arrivato un secco fax: complimenti per il Nobel. A spedirlo, il presidente della Camera Luciano Violante, l?unica nostra figura istituzionale che, a cinque giorni dall?annuncio del premio, ha fatto le sue congratulazioni a ?Medici senza Frontiere?.
Che succede? Non sarà che il conferimento del Nobel più politicamente rilevante al volontariato, proprio mentre in Italia la solidarietà e le organizzazioni non governative sono da tempo nell?occhio del ciclone, ha un po? imbarazzato i politici nostrani?
?Vita? è andata a chiederlo ai volontari italiani. Che nel premio a ?Medécins sans frontières? vedono un incoraggiamento, un riconoscimento anche del loro lavoro e, soprattutto, un?occasione per riflettere sul presente e il futuro dell?intervento umanitario. E sul silenzio delle nostre istituzioni non hanno dubbi: un ulteriore segnale dell?abisso che separa la cultura della cooperazione italiana e quella francese alla vigilia del 2000.

Che bella tirata d?orecchi
Un abisso che Maurizio Carrara, presidente del Cesvi, ha provato a quantificare: «In Francia c?è un ministero per la cooperazione e qui solo un dipartimento, là un ?otto per mille? che finanzia gli interventi umanitari e qui niente del genere, là Enti locali che raccolgono fondi da destinare alle ong e in Italia una nuova legge sulla cooperazione che suggerisce ai Comuni di improvvisarsi cooperanti invece di finanziare chi questo lavoro lo sa davvero fare. E sono solo degli esempi, personalmente se oggi fossi un politico italiano mi chiederei perché in Francia le ong sfornano ministri e governatori Onu per il Kosovo, come Kouchner, e da noi no».
Insomma, se per i nostri cooperanti questo Nobel è una grande occasione di festa e dei suoi 980 mila dollari di premio beneficeranno molte vittime di guerra, il governo italiano farebbe meglio a considerarlo come una lezione di ottimizzazione delle proprie risorse. «Una vera e propria tirata d?orecchi», ci tiene a specificare Luca Jahier della Focsiv. L?organizzazione che raduna le ong italiane di ispirazione cristiana e da tempo sciorina le cifre della distanza che le separa da quelle francesi: all?inizio degli anni Ottanta le nostre leggi garantivano la partenza e ogni genere di copertura a circa 1500 volontari l?anno; a fine ?98 i volontari ?regolari? usciti dall?Italia erano 200, duemila in Francia e tremila nel Regno Unito.
«E pensare», commenta Jahier, «che quando nel 1966 abbiamo preparato le prime norme per proteggere i cooperanti e i volontari, il resto d?Europa non ci pensava neppure». Gli effetti del ?rilassamento? italiano? Un record negativo sbandierato in questi giorni su giornali di mezzo mondo: il nostro è uno dei pochi governi europei che non contribuisce a quel 42,2 per cento di fondi istituzionali – il restante 57,8% arriva da fondi privati – grazie a cui Medici senza Frontiere svolge la sua missione nel mondo. Ma non solo, a fare le spese di una legge che, per il momento, certo non incentiva la partenza di volontari internazionali, sono migliaia di uomini e donne che lasciano l?Italia senza alcuna garanzia. Lo spiega bene Nino Sergi di InterSos: «Nei computer di Medici senza Frontiere, in Francia, c?è già un bell?elenco dei medici pronti a partire a gennaio e a settembre del 2000. Professionisti che hanno dato la loro disponibilità, qualunque cosa succederà allora nel mondo, sapendo di poter avere un?aspettativa dai loro ospedali. Per noi, tutto questo, rimane ancora solo un bel sogno».
Quando questo sogno potrà trasformarsi in realtà? «Presto», risponde il ?ministro? della cooperazione italiana Vincenzo Petrone, che saluta il Nobel di Medici senza Frontiere come un riconoscimento a tutti coloro che si occupano di aiuti umanitari e alle ong nostrane , e spiega così il diverso panorama francese e italiano: «Che il Nobel per la pace sia andato a una grande organizzazione francese dipende dal fatto che, oltralpe, c?è una legislazione che ha permesso la concentrazione delle realtà non profit in poche grandi organizzazioni come Medici senza Frontiere. E quando parlo di concentrazione mi riferisco anche a un utilizzo dei fondi che va in questa direzione. Cosa che sta cercando di fare anche la cooperazione italiana, penalizzata tuttavia dall?interpretazione della legge vigente data dalla Corte dei Conti secondo cui non possiamo finanziare consorzi di ong ma solo singoli organismi. Una difficoltà che speriamo di superare presto con la nuova legge sulla cooperazione che incentiva il volontariato internazionale e, soprattutto, punta i riflettori sull?aiuto allo sviluppo oltre che sulle emergenze». Promessa che dovrebbe far tirare un sospiro di sollievo alle ong italiane, ma non solo, preoccupate che questo Nobel a una organizzazione non governativa specializzata nei progetti di emergenza possa distrarre attenzioni e finanziamenti alla cooperazione e allo sviluppo.

Neanche una lira dal ministero
A temere che ciò succeda sono davvero in molti. Da chi, come il Cesvi, per i progetti di cooperazione allo sviluppo nel 1998 non ha avuto neppure una lira dal ministero degli Affari Esteri agli stessi vincitori del Nobel. Che agli interventi di emergenza devono gran parte della loro notorietà ma sentono sempre più forte la necessità di cementare le loro azioni umanitarie con interventi di sviluppo a lunga durata. «Senza progetti di aiuto allo sviluppo di un popolo», dice il direttore di Medici senza Frontiere Italia, Carlo Urbani, «l?intervento di emergenza può addirittura essere dannoso. Se, per esempio, dopo aver costruito un ospedale in Africa non formiamo il personale locale per gestirlo, l?azione sarà stata spettacolare solo per noi. Il 50% dei nostri progetti attivati in 80 diversi Paesi del mondo oggi sono di cooperazione allo sviluppo. Noi l?abbiamo capito, ma chi dà i fondi?». Chi dà i fondi, siano essi governi o privati cittadini, molto spesso aprono le casse di fronte alla foto di un bambino africano che muore di fame ma non a quella di una diga che verrà costruita per irrigare la sua terra. «Il punto è che oggi investire sulla cooperazione allo sviluppo invece che sull?emergenza è una mossa di marketing sbagliata: i risultati arrivano con tempi più lunghi e sono meno spettacolari», spiega il ?ministro? Petrone. Che in un anno di mandato, dal 1 agosto 1998 ad oggi, al ritorno di immagine ha preferito triplicare i finanziamenti attributi alle ong, da 30 a quasi 100 miliardi. Ma in Europa rimane un esempio più unico che raro. «Nonostante alla conferenza sull?abolizione del debito estero di Washington, e in tutte le altre conferenze sugli interventi umanitari, si dica che bisogna trovare una soluzione ai problemi strutturali dei Paesi con i progetti di cooperazione allo sviluppo piuttosto che metterci una pezza con spettacolari interventi umanitari, la cooperazione continua ad avere bisogno di fondi», spiega Luca Jahier. Possibile? Eccome, rispondono le ong italiane. Eccome, racconta il dottor Urbani di Medici Senza Frontiere, che in Cambogia ha visto organizzazioni non governative che per trovare fondi per progetti di cooperazione allo sviluppo ha dovuto inventarsi interventi d?emergenza, come costruire ospedali di cui non c?era alcuna necessità. Insomma, se davvero vogliamo imparare una lezione da questo Nobel che premia un ?ingerenza umanitaria? civile e indipendente, per le ong italiane bisogna rimettere il timone degli interventi umanitari nella direzione della cooperazione allo sviluppo. «Per farlo», suggeriscono Maurizio Carrara e Carlo Urbani, «i grandi finanziatori come l?Unione Europea potrebbero iniziare a fare delle analisi dei bisogni insieme a chi si trova sui territori da aiutare».

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