Cultura

A lezione da tre maestri americani

Christoph Niemann, Nicholas Blechman, e Matt Dorfman sono venuti a Milano, invitati da Mimaster e da Emiliano Ponzi, per far conoscere segreti e prospettive del loro lavoro su grandi testate come The New York Times e The New Yorker. Attraverso l’illustrazione si innova e si comunica davvero senza frontiere

di Matteo Riva

Lezioni americane (o forse sarebbe corretto dire “italiane”). Intitolerei così l’incontro a cui ho assistito ieri sera a Milano (ripeto, a Milano e non ad Harvard!), un’occasione unica di vedere Christoph Niemann, uno dei più grandi illustratori in circolazione (tra i protagonisti della serie-documentario “Abstract”, ora in onda su Netflix) insieme a due art director tra i più autorevoli, Nicholas Blechman, creative director per The New Yorker, e Matt Dorfman, art director per The New York Times Book Review. L’evento è stato curato da Mimaster (scuola milanese di eccellenza) e dall’illustratore Emiliano Ponzi, collaboratore habitué delle pagine newyorkesi, che è stato anche moderatore dell’incontro. Il tutto ospitato nel curioso spazio di Acqua su Marte, uno laboratorio multidisciplinare che ha ultimamente promosso diversi seminari con protagonisti del mondo del design.
L’incontro si è svolto seguendo una scaletta incrociata in cui i vari protagonisti intervenivano illustrando con brevi racconti di vita e lavoro il processo di creazione dei progetti di cui sono rispettivamente responsabili.


Matt Dorfman, ad esempio, ha raccontato i primi stenti di una carriera che a fatica decollava e che attraverso passione e determinazione (ed anche molta ironia) l’ha invece portato successivamente a divenire prima illustratore e poi art director presso il New York Times. La chiave del successo delle sue immagini sta, a mio parere, nell’immediatezza comunicativa, nell’essenzialità formale e nel coraggio di osare soluzioni estetiche non convenzionali e fuori da ogni stereotipo stilistico. Dorfman trasmette veramente un modo libero e consapevole di fare il suo lavoro.


Nicholas Blechman ha un approccio invece più pragmatico. Questo è evidente nell’egregio lavoro da creative director del New Yorker, di cui sta, come lui ha detto, “conservativamente ammodernando” l’immagine. Il compito infatti non è semplice, stiamo parlando di una testata nata e rimasta immutata dal 1925. Ha mostrato come ha messo in atto il suo piano: ha proiettato una tavola (la “Style Guide” del New Yorker) che illustra il processo razionale con cui ha messo in ordine tutte le caratteristiche del brand della rivista. In questo sistema ordinato la vera variabile sono gli illustratori che, oltre ad essere storicamente chiamati a rompere gli equilibri delle infinite colonne di testo del magazine, trovano spazio nel branding degli affiliati del gruppo (radio, eventi).

La sua è una regia perfetta, da grande direttore. Blechman fa inoltre notare come nell’inconscio di ogni illustratore chiamato a disegnare per il New Yorker ci sia sempre quella prima copertina (immagine sotto), con il dandy che osserva una farfalla con la lente di ingrandimento. È un simbolo culturale che geneticamente si propaga in ogni copertina.



Christoph Nieman, tedesco ma con gran parte della propria carriera passata negli Stati Uniti, è infine andato invece oltre a quello che ha raccontato nel documentario per Netflix (e questo tha reso ancora più prezioso il suo intervento). In particolare ha posto un accento sulla responsabilità di un mestiere, l’illustratore, che è apparentemente qualcosa che ha a che fare solo con l’estetica. Va infatti considerata l’elevata tiratura delle immagini che compaiono su riviste come queste, soprattutto se si pensa ad una copertina che fa il giro del pianeta. In questi casi l’impatto dell’immagine richiede riflessioni ulteriori, come provare a fare un’autocritica sulle ragioni per cui si tende involontariamente a rappresentare un soggetto umano generico con le caratteristiche “maschio” e “di pelle bianca”. Che cosa significa questo in una società multietnica, quale messaggio può veicolare? Christoph Nieman insomma ricerca una profondità di senso in quello che disegna ed è perfettamente al corrente del fatto che il linguaggio che maneggia, l’illustrazione, è più universale di qualsiasi lingua o parola.


Per concludere possiamo dire che questo incontro è stata una vera lezione di umanità oltre che di professionalità. Per quanto questi graphic designer siano quasi delle rockstar, si sono dimostrati molto disponibili a rispondere alle domande del pubblico e anche a dispensare ai più giovani i consigli pratici per come proporsi per cercare di lavorare con testate così importanti. Al di là delle tante cose di estremo interesse ascoltate, questa informalità è sembrata una lezione di metodo: aprendosi e condividendo conoscenze e ed esperienze si fa crescere un settore che può fornire opportunità importanti per tanti giovani.

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