Gli americani sono convinti che il fine della filantropia istituzionale sia quello di cambiare il mondo. Essa, infatti, si distinguerebbe dalla carità, pura reazione emotiva, per un approccio scientifico che le permetterebbe di eliminare le cause dei problemi della nostra società. Credo che si sbaglino; la filantropia istituzionale non ha né le capacità, le risorse di cui dispone sono molto limitate, né la legittimazione, con quale diritto qualche riccone può stabilire come cambiare la nostra società, per arrogarsi un simile compito, compito peraltro impossibile se, come ci insegna la storia, la vera causa di gran parte delle nostre sofferenze debba essere cercata nel più profondo del cuore di ognuno di noi.
Il compito della filantropia istituzionale è invece quello di aiutare il maggior numero di persone ad affermare la propria umanità, la quale non può certo ridursi nella soddisfazione in modo effimero di effimeri bisogni, ma piuttosto nel testimoniare la propria dignità, ossia nel vivere pienamente quel frammento di assoluto che, benché spesso reso irriconoscibile dalle nostre debolezze, le nostre ipocrisie, le nostre meschinità, pur esiste e che solo può dare un senso alla nostra vita. Il cambiamento sociale non può che essere la conseguenza di questa testimonianza, non il fine. Proprio la storia contemporanea del nostro continente ci insegna come tutti i tentativi di cambiare il mondo per cambiare il cuore dell’uomo abbiano generato drammi e tragedie di cui paghiamo ancora le conseguenze.
Solo cambiando il mio cuore, potrò eventualmente migliorare il mondo attorno a me. Si tratta di una verità semplice ed evidente, ma così difficile da vivere senza una qualche forma di aiuto, soprattutto in una società che ci isola e tende a distruggere ogni fiducia reciproca. Forse l’homo homini lupus non è l’essere umano allo stato di natura di cui parlava Hobbes, ma piuttosto il frutto più maturo di una società che si è fondata su tale assunto e che si è illusa di poter generare pubbliche virtù dai vizi privati.
In un mondo che, al di là degli espedienti retorici, riconosce il principio secondo il quale chi vince ha ragione, la filantropia istituzionale, se non vuole negare se stessa e rivelarsi come una grande ipocrisia, cosa peraltro sempre possibile, deve darsi un fondamento radicalmente diverso. Essa si pone necessariamente al servizio di una verità che la trascende e che si limita a riconoscere come giusta. La volontà del fondatore non è il fondamento di una fondazione in quanto volontà, ma in quanto ha riconosciuto e in qualche modo cristallizzato una verità che meritava di essere perseguita e testimoniata.
Questo riconoscere che la nostra volontà può essere libera, non quando ha i mezzi per assecondare ogni suo capriccio, ma quando riconosce una giustizia e una verità superiore che meritano di essere testimoniate, rappresenta il vero e fondamentale contributo che la filantropia istituzionale può offrire allo sviluppo della nostra società. Tutto il resto non sono che frutti, frutti certo importanti, ma che ci vengono donati in sovrappiù. Trasformarli in fini, in obiettivi da perseguire con efficienza, efficacia ed economicità, rischia di avere effetti controproducenti.
Con questo non si vuole certo insinuare che la filantropia non debba operare con efficienza, efficacia ed economicità, ma ricordare che esse non possono mai trasformarsi in fini, ma devono rimanere dei mezzi al servizio della dignità della persona. Ed è proprio questo il vero compito della filantropia: creare delle oasi che aiutino ogni individuo a vivere con dignità, a testimoniare i valori in cui crede, a realizzare ciò che ritiene vero, bello e buono. Benché tutto ciò possa sembrare scontato e banale, bisogna riconoscere che viviamo in una società che nega queste evidenze. Una società il cui unico fine sembra quello di aiutare i singoli a soddisfare le proprie utilità marginali e non certo a dargli la forza di resistere alle proprie tentazioni. Una società che ci bombarda con la pubblicità del gioco d’azzardo per poi ricordarci, ipocriticamente, che è necessario farlo con moderazione.
In questo mondo esistono però ancora tantissime persone che vorrebbero dare il proprio contributo alla definizione e realizzazione del bene comune, ma che non sanno come fare e che spesso si sentono impotenti davanti ad una realtà che, al di là della retorica, nega sistematicamente ogni valore che non possa essere commercializzato. Diventare un punto di riferimento per tutte queste persone, offrire loro l’aiuto e l’assistenza di cui hanno bisogno per affermare ciò in cui credono, permettere loro di superare l’isolamento in cui il dispotismo moderno li ha imprigionati è forse il compito più nobile, ma anche più produttivo, di cui la filantropia istituzionale può farsi carico. Per essere all’altezza di un simile compito la filantropia istituzionale deve ripensarsi profondamente, rivedere il proprio modo di operare, ridefinire i propri obiettivi, liberando così se stessa e l’intero privato sociale da una subordinazione culturale che finisce per privare la nostra società del contributo che questo mondo può metterci a disposizione per la crescita non solo morale e civile, ma anche economica e sociale di ognuno di noi.
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