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A che cosa servono i ricchi? Piketty: «A produrre ideologia sulla ricchezza»

Per l'economista francese, che ha da poco pubblicato un poderoso tomo dal titolo Capitale e ideologia, «l'aumento delle disuguaglianze socio-economiche è il problema fondamentale da affrontare». Per questo, sarà molto difficile prendere in considerazione soluzioni ad altre grandi sfide, a partire da quelle climatiche e migratorie, se non proviamo a «ridurre le disuguaglianze e costruire una società più equa»

di Marco Dotti

Pensiamo a Davos, sede del World Economic Forum. Il luogo del "potere invisibile" non è più invisibile da tempo. Ma, oggi, è anche meno imperturbabile se è vero – ed è vero, lo ricorda Véronique Crochon su Le Mondeche il dibattito sull'opportunità di tassare i grandi capitali ha fatto breccia persino tra i miliardari e gli executive delle granitiche Alpi svizzere.

In una conferenza del 23 gennaio scorso, il multimiliardario Michael Dell, amministratore delegato dell'omonimo gigante della tecnologia, ha rispedito al mittente la proposta di Alexandria Ocasio-Cortez: tassare con un'aliquota d'imposta marginale del 70% sugli americani più ricchi? No, grazie. Ogni tassazione, avrebbe effetti castastrofici – ha sostenuto Dell. Normale routine e tutti d'accordo? Non proprio.

Le parole di Dell, per il solo fatto di essere state pronunciate in quella sede, a molti sono sembrate "fessure nella Grande Muraglia". Quando capita, presto o tardi anche le barriere più solide si sgretolano. Tanto più che, replicando a Dell nel corso dello stesso panel, Erik Brynjolfsson, economista della MIT Sloan School of Management, si è preso la briga di riscaldare l'ambiente, ricordando come tra gli anni '30 e gli anni '60, l'aliquota fiscale media negli USA si avvicinasse al 70% e, soprattutto, coincidesse con «un buon momento per la crescita economica». Non proprio una catastrofe, dunque.

Mentre il dibattito sulla tassazione delle ricchezze cresce, soprattutto negli USA, cresce esponenzialmente anche il divario tra gli ultra-ricchi e il resto della popolazione. Lo spiega Thomas Piketty, nel suo ultimo libro Capital et idéologie, (1232 pagine, euro 25) nelle librerie d'Oltralpe per le edizioni Seuil.


L'autore del Capitale nel XXI secolo – testo di enorme successo, anche tra i non specialisti, nel quale l'economista francese, elaborando una mole di dati prima sconosciuta, ha modificato profondamente il dibattito sul rapporto tra ricchezza e ineguaglianza – pone un problema radicale e semplice. O, forse, radicale proprio perché esposto con semplicità: che cos'è la disuguaglianza? Scrive Piketty: «La disuguaglianza non è economica o tecnologica: è ideologica e politica». Tutto qua? Tutto qua.

In altre parole, «il mercato e la concorrenza, i profitti e i salari, il capitale e il debito, i lavoratori qualificati e non qualificati, nazionali e stranieri, ma anche i paradisi fiscali e la competitività… non esistono in quanto tali». Sono costruzioni sociali, oltre che variabili storiche, che dipendono interamente dal sistema giuridico e fiscale, dalla politica educativa» e dalla costruzione intellettuale che permette di leggerle in una chiave invece che in un'altra. Per dirla con Michel Foucault: sono conseguenze di un complessivo ordine del discorso, che dalla culla alla tomba "lavora" per rendere naturale ciò che non lo è: la disuguaglianza tra gli uomini. appunto.

Le situazioni di disuguaglianza materiale derivano dunque per Piketty dalle «rappresentazioni che ogni società si dà e dall'impegno che ci mette per operare o meno a favore della giustizia sociale e dell'economia equa». Le disuguaglianze, spiega inoltre Piketty nelle oltre milleduecento pagine del suo lavoro, sono relazioni. Relazioni di potere ideologico-politico tra diversi gruppi. La copertura ideologica assicura ai pochi una possibilità di governance e azzera le possibilità di governo per i molti. Insomma, la democrazia è messa sotto scacco non tanto dai populismi e dalla democrazie illiberali, che sono sintomi, ma dalla patologia che la segna: aver tradito un sogno di uguaglianza e parità non meramente formali.

«Il punto importante è che queste relazioni di potere – conclude Piketty- non sono solo materiali: sono anche e soprattutto intellettuali. In altre parole, le idee e le ideologie contano nella storia e ci permettono di immaginare e strutturare costantemente nuovi mondi e società diverse». Da qui lo stallo attuale, ma anche la possibilità (molto remota) di uscirne.

Torniamo a Davos e alle sue élites, meno solide di un tempo: «le élite delle diverse società, in ogni momento, e a tutte le latitudini, spesso tendono a "naturalizzare" la disuguaglianze, vale a dire cercare di dare loro una base naturale e obiettiva, per spiegare che le disparità sociali in atto sono nell'interesse dei più poveri e della società nel suo complesso, e che in ogni caso la loro attuale struttura è l'unica possibile, e nulla può essere sostanzialmente modificato senza causare immense disgrazie».

L'esperienza storica mostra però il contrario. «L'aumento delle disuguaglianze socio-economiche, osservato nell'ambito della maggior parte dei paesi e delle regioni del mondo dagli anni '80 e '90, è uno degli sviluppi strutturali più preoccupanti con i quali il mondo si confronta all'inizio del XXI secolo».

Per questo, spiega ancora Piketty, è molto difficile prendere in considerazione soluzioni ad altre grandi sfide, a partire dalle sfide climatiche e migratorie, se non mettiamo mano al problema cruciale: «bisogna ridurre le disuguaglianze e costruire una società più equa».

Nel frattempo, il mondo brucia: crescono le "rivolte senza leader", movimenti acefali, dettati dalla rabbia e dalla frustrazione di non poter uscire dalla morsa di una disuguaglianza che cresce ogni giorno di più. E ogni giorno di più, proprio perché senza testa e senza progetto, finisce per alimentarla.

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