Non profit

Ancescao, 25 anni di aggregazione sociale

L’Associazione Nazionale Centri sociali, Comitati Anziani e Orti festeggia con un convegno il 21 settembre a Roma e guarda al futuro. «Siamo il termometro dei bisogni del territorio», dice il presidente Esarmo Righini

di Marina Moioli

Chi pensa che i centri sociali siano semplici “bar per anziani” non è mai entrato in una delle 1.447 sedi di ANCeSCAO, acronimo di Associazione nazionale Centri Sociali, Comitati Anziani e Orti. Sono piuttosto luoghi di valorizzazione delle potenzialità del territorio in grado di offrire momenti di aggregazione e di trasmettere ai più giovani il senso della collettività. Tra le tante attività organizzate ci sono gruppi di lettura e di teatro, momenti ricreativi, sportivi o di supporto allo studio, lezioni di lingua, cucina e informatica, accompagnamento per chi deve andare a fare la spesa, assistenza disabili, orticoltura. Tutte realizzate con l’aiuto disinteressato di “gente speciale”, vale a dire degli oltre 400mila iscritti riuniti in 17 strutture regionali e 73 provinciali.

Nata nel 1990 con lo scopo di aiutare la popolazione anziana a vincere la solitudine e l’emarginazione, Ancescao ha saputo negli anni modificare l’offerta sociale e oggi si occupa di integrazione intergenerazionale, interazione con nuovi cittadini e lotta alle povertà. Per festeggiare il suo primo quarto di secolo ha organizzato per il 21 settembre a Roma, in Campidoglio alla Sala Promoteca, il convegno “Ancescao si apre al futuro” ( con il sottotitolo “Rinnovando un’associazione democratica, socializzando competenze e impegni per una Europa di Comunità”). A illustrare l’attività dell’associazione e gli obiettivi del convegno è Esarmo Righini, 69 anni, modenese, presidente dal febbraio 2015.


La vostra associazione è nata in modo atipico per volontà di centri sociali e associazioni già esistenti e ha nel suo Dna la centralità del territorio. Qual è il bilancio dei primi 25 anni?
Il bilancio non può che essere estremamente positivo. Dalle origini siamo cresciuti enormemente e soprattutto, cosa che ci interessa di più, siamo in grado di cogliere le spinte che vengono dal territorio in termini di solidarietà, bisogni, assistenza. Possiamo dire di avere il vero termometro della situazione.

La crisi economica ha condizionato il vostro impegno e vi ha imposto nuove esigenze?
Le esigenze sono cambiate moltissimo, ma quello che è cambiato è stato soprattutto l’atteggiamento dei volontari. Se una volta accettavano di buon grado qualsiasi tipo di incarico, oggi la questione sta diventando un po’ più complicata. Il volontario cerca sempre di più un incarico che lo soddisfi o che sia legato alle sue competenze, altrimenti dopo un po’ di tempo abbandona l’incarico. Per ovviare a questo problema abbiamo cercato di puntare molto anche sulla formazione. Si tratta di un problema serio da affrontare perché la società intera è molto cambiata. Poi ci sono differenze abissali, ad esempio, tra un sessantenne e un ottantenne o tra un centro sociale in Trentino e uno in Emilia Romagna o in Sicilia. E solo quelli che hanno saputo attrezzarsi sono riusciti a ottenere una partecipazione ampia e in certi casi anche il coinvolgimento delle generazioni più giovani.

Che rapporto avete con le amministrazioni locali?
I centri sociali sono nati alla fine degli anni Ottanta proprio per volontà delle amministrazioni locali quando gli anziani vennero espulsi dai bar per motivi commerciali, perché “non consumavano”. Allora i Comuni incentivavano la nascita dei centri accordando tutta una serie di agevolazioni, dal comodato d’uso dei locali al pagamento delle utenze, tutte cose che oggi, con la politica di spending review e i tagli alla pubblica amministrazione, vengono man mano tolti. Il pericolo è imminente: corriamo il rischio serio che i centri sociali più “poveri” debbano chiudere i battenti se i Comuni cominciano a richiedere i soldi dell’affitto e il pagamento di luce e gas. Ma in tutto questo c’è una contraddizione di fondo perché da una parte le amministrazioni chiedono i pagamenti del dovuto, dall’altro vogliono che interveniamo sempre di più nel sociale per sopperire alle loro mancanze. Insomma, da una parte ci tolgono l’ossigeno, dall’altra ci chiedono di correre più forte.

Nel titolo del vostro convegno c’è un richiamo all’Europa: siete in contatto con associazioni straniere di volontariato?
Al convegno sarà presente Marjan Sedmak, presidente di Age Platform Europe (la rete europea di oltre 150 organizzazioni di e per over 50 che rappresenta oltre 40 milioni di anziani in Europa), e questa è la prima volta che prendiamo contatto con altre realtà europee. L’intenzione è quella di scambiare le reciproche esperienze e di cominciare a collaborare. Noi in Italia abbiamo avviato per primi la realtà degli orti sociali, che oggi vanno tanto di moda, coinvolgendo da subito tante donne extracomunitarie che piantano nei nostri orti i prodotti dei loro Paesi d’origine. Speriamo di allargare questo tipo di discorso. E di dare un contribuito anche per quanto riguarda il dolorosissimo problema dei migranti. L’Italia per ora lo sta affrontando abbastanza bene, ma non è purtroppo così in molti altri Paesi europei.

Come associazione di volontariato che aspettative avete dalla tanto attesa Riforma del Terzo Settore?
Ci aspettiamo tutto dalla Riforma, ma per adesso siamo molto delusi perché vediamo che il dibattito non si sta orientando nel modo giusto. Capisco che l’impresa sociale sia più controllabile, ma bisogna tenere fermo come punto di riferimento il non profit perché sono le associazioni di promozione sociale le più numerose. Per noi svolgere attività come cene, spettacoli o feste per autofinanziarci è essenziale. Metteremo per iscritto in un libro le nostre istanze e speriamo che vengano accolte. Abbiamo però un grave “difetto”, che per me è un pregio: siamo apartitici. Quindi nessuno ci rappresenta a livello politico, dobbiamo fare da soli.

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