Mondo
Mons. Bertin: “No ai bombardamenti sulla Somalia”
Il vescovo di Gibuti e amministratore apostolico per la Somalia: "Bombardare la Somalia non serve a niente. Anzi rischia di portare nuove leve ai terroristi"
di Redazione
Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico per la Somalia. Fides lo ha intervistato, in un momento cui la Somalia è indicata come possibile obiettivo della campagna occidentale contro il terrorismo.
La Somalia è indicata come prossimo obiettivo della guerra contro il terrorismo. Cosa pensa di un possibile intervento militare? Quanto è forte la presenza di gruppi estremisti nel paese?
A partire dal 1985, e soprattutto negli ultimi anni di assenza dello stato, si sono formati alcuni gruppi islamici che, di fronte al fallimento dello stato laico propongono di crearne uno islamico. Alcuni di questi sono gruppi armati. Essi hanno compiuto azioni soprattutto in Etiopia, in zone abitate da somali. Si è creata quindi una certa confusione tra irredentismo somalo e islamismo. La popolazione somala non si merita bombardamenti: primo perché i gruppi islamici non rappresentano una minaccia per il mondo occidentale. Da anni l’Etiopia li combatte, è difficile che possano intraprendere azioni di vasta portata. Secondo, perché gli estremisti sono isolati dal resto della società somala: la maggioranza dei somali non li riconosce. Un’azione militare spingerebbe la gente a solidarizzare con gli islamisti, ampliando il problema. I leader occidentali devono quindi riflettere bene e usare altri metodi per combattere il terrorismo.
Qual è la situazione della comunità cristiana in Somalia?
Non si può parlare di comunità cristiana. Vi sono solo alcuni individui
cristiani, incluse alcune religiose. Si tratta in gran parte di stranieri
che lavorano per organizzazioni umanitarie. Esiste pure un gruppo di
giovani cattolici a Mogadiscio. Questi ragazzi, nella situazione di caos
del paese, vivono isolati e in vere e proprie “catacombe”. Io stesso non
posso incontrarli come gruppo, anche perché devo rispettare alcune norme di sicurezza, ne incontro due o tre alla volta. Il ritorno dell’autorità dello stato è importante per garantire ai pochi cristiani la sicurezza personale e alla Chiesa la possibilità di condurre la propria azione pastorale e caritativa. Anche la Caritas Somalia non è presente come struttura sul territorio ma appoggia le iniziative ai altre organizzazioni umanitarie.
La Somalia dal 1991 non ha più uno stato centrale. Qual è oggi la
situazione politica del paese?
La Somalia è divisa attualmente in almeno 3 parti. Nel nord vi è la repubblica del “Somaliland”, dichiaratasi indipendente 10 anni fa, non riconosciuta dalla comunità internazionale. In questa area c’è una certa stabilità, soprattutto nella parte centro occidentale.
Nella parte nord-orientale, negli ultimi 3 o 4 anni si è creata una zona di relativa sicurezza che ha portato alla fondazione del “Puntland”. Si tratta di un’amministrazione locale provvisoria che non ha mire di indipendenza. Negli ultimi 2 mesi, però, la situazione è precipitata perché si sono creati 2 esecutivi in lotta tra loro. La parte centro-sud, quella più abitata e potenzialmente più ricca, è la zona del paese che non è mai riuscita a esprimere un’amministrazione stabile. Il governo di transizione, formato un anno fa con la conferenza di Gibuti, insediato nella capitale Mogadiscio, non controlla il resto del territorio. Il governo continua però ad avere credito presso la comunità internazionale.
Di recente Hasan Abshir Farah ha formato un nuovo esecutivo che ha avviato relazioni con l’Etiopia. Mogadiscio e Addis Abeba hanno deciso di convocare nei prossimi mesi una conferenza a Nairobi di tutte le parti somale. Si tratta di uno sviluppo importante perché l’Etiopia ha sempre cercato di indebolire il governo di Mogadiscio e quest’ultimo non è stato finora appoggiato dalle varie componenti locali.
Da dove deriva l’instabilità somala?
I somali non hanno una cultura dello stato. Sono popolazioni legate soprattutto al clan e al nomadismo. Non bisogna poi dimenticare che, dopo l’indipendenza nel 1960, i leader della nazione hanno depredato in modo rapace le risorse del paese. Negli ultimi tempi, inoltre, i vari capi hanno lavorato solo per il proprio tornaconto. Tutto questo disgrega il senso della comunità: la logica del clan prevale su quella del bene comune.
(fides)
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