Famiglia

Dai campi ai villaggi. Chi non muore si organizza

L’inviato del New York Times, Peter Mass, racconta l’ex tendopoli di Shamshatoo, in Pakistan.

di Carlotta Jesi

Cosa succede nei campi profughi quando le tv e le organizzazioni umanitarie se ne vanno? Diventano delle città in cui le regole sociali del mondo esterno non vengono sospese, semplicemente riadattate. Peter Maass, corrispondente dal Pakistan per il New York Times Magazine, lo ha scoperto visitando il campo profughi di Shamshatoo, a nord del Paese. Il suo è un reportage illuminante sulla vita degli oltre 20 milioni di rifugiati che, nell?esilio dei campi, cercano di ricostruirsi una vita. Ve ne proponiamo un estratto, per leggerlo interamente potete andare all?indirizzo internet www.nytimes.com/2001/11/18/magazine/18REFUGEE. html?pagewanted=print Sembra un?antica città, Shamshatoo. A parte le jeep Toyota e i burka delle donne, qui tutto è di un marrone biblico, il colore della terra più vecchia della vita. Le case e i muri sono fatti di fango seccato al sole, e nessuna ha più di due anni. Ci vivono oltre 55mila anime. Anche se, per la legge, non sono residenti, ma rifugiati. Di campi come questi ce ne sono più di cento in Pakistan, anche se le Nazioni Unite spesso li chiamano villaggi. Ci siamo fatti un?idea troppo semplicistica dei campi profughi: corridoi di tende bianche piene di miserabili che attendono di essere nutriti dagli operatori umanitari europei e americani. Non è così. Quando le telecamere occidentali se ne vanno, e gli aiuti d?emergenza finiscono, i campi cominciano a cambiare. Come Shamshatoo, che inizia a sembrare una comunità stabilizzata di rifugiati: ci sono già scuole laiche e religiose, 4 cliniche, più di 12 panifici, alcune moschee e più di 200 pozzi. In questo campo, creato nel 1999 per 156 famiglie, convivono praticamente tutte le etnie dell?Afghanistan, da quella tagika a quella pashtun. La maggior parte delle persone si è rifugiata qui a causa della siccità, quindi non ci sono scontri politici legati alla guerra in corso. Nonostante questo, però, le tensioni etniche che esistevano in Afghanistan continuano qui nell?esilio: ci sono continuamente liti sull?utilizzo dei pozzi. Nel campo, comunque, non c?è solo infelicità. L?ho imparato girando nel suo bazar, un intricato susseguirsi di incroci senza nome fra strade senza nome. Oltre un centinaio di mercanti hanno aperto i loro negozi, anche se nessuno di essi ha delle insegne perché qui sono un lusso. Numerosi ristoranti all?aria aperta servono riso piccante e kebab, e ci sono dei negozi che vendono lanterne, bibite, verdure e vestiti. Ho capito che i campi profughi sono società complesse incontrando Jacques Franquin, coordinatore delle emergenze a Peshawar per l?Acnur. Sta creando 15 nuovi campi, e il suo tavolo è coperto da computer e telefoni sufficienti a gestire una guerra. Ma la cosa più interessante che ho notato è il progetto per un nuovo campo vicino al confine afghano. Che però non mostra file e file di tende. No, il campo è diviso in sezioni in cui i rifugiati potranno montare le loro tende come vogliono: una vicina all?altra, lasciando lo spazio per un giardino comune, o separate per garantire la privacy di ogni famiglia. Se dovranno restare nel campo per molto tempo, verranno incoraggiati a costruirsi case di fango. «Qui vogliamo metterci un mercato», spiega Franquin indicando il centro del progetto. «Queste persone non sono in prigione. Stiamo cercando di costruire un nuovo tessuto, come in una città, programmando scuole, panifici e molto altro ancora». Nella struttura sociale dei campi, le regole del mondo esterno non vengono sospese. Semplicemente riadattate. Se a casa eri il responsabile di un villaggio, probabilmente svolgerai lo stesso ruolo nel campo perché in genere gli abitanti dei villaggi fuggono insieme. A Shamshatoo c?è una forza di polizia facilmente corruttibile, diretta da un amministratore pakistano che affida la gestione degli affari giornalieri del campo a quattro malek (un termine che risale all?era coloniale, quando gli inglesi lo usavano per indicare gli amministratori locali). Ogni malek, che ottiene questa posizione con un processo informale che consiste nell?imporre il rispetto da parte degli altri rifugiati, degli amministratori pakistani e delle agenzie umanitarie, governa su una sezione del campo. Nusrat, un comandante della guerriglia afghana che combatté contro l?armata rossa per dieci anni, è il malek più importante del campo. A seconda dei casi, è un dio o un capro espiatorio. Il suo compito, in una società dove non ci sono abbastanza risorse per tutti, è infatti quello di distribuirle. E la sua vita nel campo è un?estensione di quella che aveva in Afghanistan: deve proteggere i più deboli. Sto chiacchierando con lui quando un suo aiutante gli porta una notizia allarmante: un?organizzazione malese sta distribuendo aiuto nelle vicinanze, e Nusrat non è stato informato. È un affronto al suo prestigio, oltre che una minaccia per la sicurezza del campo: la cosa più semplice per creare delle dispute fra rifugiati è, infatti, distribuire aiuti. L?organizzazione umanitaria lo sta facendo nel cortile di una casa circondata da mura di fango: chi riesce a entrare, ottiene un biglietto di carta verde che, fra qualche giorno, gli darà diritto a un pacchetto di cibo con cui celebrare il Ramadam. Gli altri cercano di arrampicarsi sui muri. «Non state distribuendo cibo nel modo giusto», spiega Nusrat a un responsabile dell?organizzazione, «non potete entrare nel campo, impadronirvi di una casa e iniziare questo lavoro senza informarci. Qui è il caos: aprite le porte, le donne qui fuori sono delle vedove, e dovete rispettarle». In questo campo basta poco a fare la differenza fra la vita e la morte. Una famiglia che può costruirsi una capanna di fango, è un gradino superiore a quelle che vivono in tenda. La famiglia che possiede due capre, sta meglio di quella che ha due galline. Che, a sua volta, è più ricca di quella che non ha nemmeno una gallina. La gerarchia dipende dal tempo che una famiglia ha vissuto nel campo. In pratica, più recente è il tuo arrivo, più dura è la tua vita. Le capanne e le tende piantate nelle posizioni migliori, infatti, sono già occupate. E anche i lavori. La vita da rifugiato in un certo senso annulla le differenze sociali che esistevano prima dell?esilio. La sofisticazione culturale e l?istruzione portano pochi benefici. Anzi, in generale, se sei un professionista di successo, hai più possibilità di diventare un rifugiato senza successo. Come Bashir Ahmed Zai. La sua vità è peggiore di quella di altri rifugiati, perché lui è caduto più in basso di loro. Proviene da una famiglia borghese che aveva una casa a Kabul per l?estate e una a Jalalabad per l?inverno. Oggi è un dottore che gestisce una piccola farmacia nel campo. Ma il Pakistan non riconosce le lauree afghane in medicina. Per cui, fuori dal campo, le qualità professionali di Bashir non hanno mercato. (traduzione di Carlotta Jesi)


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