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La portavoce Unhcr: “Manca un progetto europeo d’accoglienza e mancano i fondi”

Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell'Unhcr, accetta le critiche sulla scarsa azione politica delle Nazioni unite: "E' giusto il richiamo agli Stati membri del Consiglio di sicurezza a fare di più". E spiega come un centinaio di colleghi stia aiutando a reggere l'urto al confine ungherese e negli altri punti caldi dell'arrivo di "migliaia di persone esauste, con ancora addosso ferite di guerra, che hanno diritto all'asilo"

di Daniele Biella

Non c’è limite all’orrore: l’ultima tragedia riguarda almeno 30 profughi morti asfissiati in un Tir con targa ungherese lasciato su un’autostrada austriaca. Poi altri 55 migranti morti nell’attraversare il mar Mediterraneo. E migliaia in viaggio su navi derelitte e con scafisti sempre più crudeli, altre decine di migliaia pronte a sbattere in queste ore contro la “Fortezza Europa” – che oggi ha le sembianze di un muro che separa l’Ungheria, porta della Ue, dalla Serbia dove stanno passando ora famiglie siriane, afghane e irachene passate dal difficile confine macedone – in fuga da guerra e terrorismo. La situazione dell’immigrazione europea è fuori controllo, ma ancora una volta gli Stati dell’Unione Europea risultano incapaci di prendere decisioni urgenti e univoche: tocca così ad altri mettere delle pezze, in primo luogo gli operatori umanitari dell’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati che si porta dietro il blasone delle Nazioni unite ma che, a conti fatti, fa quel che può in condizioni drammatiche: “Aumentiamo di giorno in giorno la nostra presenza, seguendo le urgenze maggiori, ma ad esempio nel contesto dell’emergenza siriana lavoriamo al 30% del budget che ci servirebbe mentre in Europa paghiamo la mancanza di un progetto comune di accoglienza”, ci spiega Carlotta Sami, portavoce Unhcr per il Sud Europa. “Ricordiamoci che parliamo di persone che sono sopravvissute alla guerra e al viaggio in mare e che, esauste, si trovano davanti muri quando nel 90% dei casi, in particolare chi sbarca in Grecia, è un rifugiato a tutti gli effetti e quindi ha diritto all’asilo”.


Ultimamente le critiche verso il "silenzio" dell'Onu – di cui, comunque, l’Unhcr è espressione – sono state portate avanti anche dal presidente della Cei, Angelo Bagnasco. Può e deve fare di più per rendere meno pesante la situazione migratoria verso l'Europa?
Noi come Unhcr siamo uno strumento operativo della Nazioni unite, e arriviamo a danno compiuto. Ci esponiamo in prima linea ovunque nel mondo: attualmente riusciamo a occuparci di 45 dei 60 milioni di profughi nel mondo, nonostante il nostro budget sia sottofinanziato almeno del 50%. Detto questo, quando si chiede più presenza dell’Onu si intende il Consiglio di sicurezza, che è espressione degli stessi Governi: anche in questo caso la difficoltà di trovare decisioni comuni porta a conseguenze tragiche, basti pensare alle conseguenze del non avere trovato una soluzione alla guerra in Siria. Il richiamo a fare di più è quindi fondamentale.

L’Unione europea ha trovato dopo mesi un debole accordo per redistribuire al proprio interno 40mila profughi dagli Stati di primo approdo come l’Italia e la Grecia ma sembra inerme nell’affrontare, al di là degli interventi di salvataggio in mare, la questione accoglienza…
C’è una recente notizia positiva, ovvero lo sblocco di 1,5 milioni di euro di Echo (l’Agenzia Ue per l’aiuto umanitario) ma serve un intervento globale più massiccio. In particolare si deve agire sui Paesi in conflitto, e supportare i paesi confinanti, come Libano e Turchia. Come Unhcr promuoviamo da tempo la soluzione delle rotte legali verso l’Europa, è un nodo fondamentale per cui ci siamo battendo.

La cancelliera tedesca, Angela Merkel, proprio mercoledì 26 agosto ha ricordato l’importanza dell’accoglienza e la Germania da qualche giorno ha dichiarato che inserirà direttamente i profughi siriani nei propri programmi di asilo senza passare dalle “strettoie” del Regolamento Dublino, e un primo aereo ponte di 139 rifugiati siriani è volato dal Cairo a Francoforte. Come valuta queste azioni?
Sono passi positivi, che possono essere da esempio per altri Paesi. La Germania da tempo si sta distinguendo per essere un paese che accoglie. A livello più generale, bisogna incrementare i reinsediamenti dei profughi e favorire i ricongiungimenti familiari in modo legale, così come concedere visti per motivi di salute e studio per rifugiati. Le procedure attuali, in particolare quelle legate al regolamento di Dublino, vanno accelerate e aspettiamo speranzosi la revisione del regolamento stesso, che la Ue ha fissato per il 2016.

Come valuta l’Unhcr l’operato attuale di Frontex, l’agenzia dell’Unione europea addetta al controllo delle frontiere?
Siamo soddisfatti del cambiamento drastico che Frontex ha messo in atto negli ultimi mesi nelle proprie missioni (Triton nella zona più occidentale del Mediterraneo e Poseidon in quella orientale, ndr), prendendo coscienza dell’importanza delle operazioni di ricerca e salvataggio in mare, che ora opera in congiunto con la Guardia costiera italiana. Resta il fatto che ogni giorno, soprattutto in questo periodo, arrivano notizie di tragedie come i 51 migranti morti asfissiati nella stiva di mercoledì 26 agosto e le decine nel camion trovato giovedì 27 in Austria.

Se gli scafisti diventano sempre più efferati – sono in aumento i trasbordi forzati di profughi in alto mare da barche più nuove con cui erano partiti a carrette del mare destinate al naufragio se non avvistate in tempo – si segnalano, attraverso testimonianze dirette anche video, operazioni scorrette anche da parte della Guardia costiera greca per respingere i siriani che partono dalla Turchia. Avete dei riscontri in tal senso?
Abbiamo saputo delle testimonianze, stiamo valutando la loro veridicità. Se ci sono state situazioni del genere, la nostra idea finora è che siano stati casi isolati, rispetto alla moltitudine di imbarcazioni che porta a termine la breve rotta tra la Turchia e le isole greche. Bisogna sottolineare che, seppur breve, si tratta di un percorso rischioso e non esente da naufragi – l’ultimo pochi giorni fa – con numeri minori ma altrettanto tragici. Tra l’altro spesso i gommoni arrivano in zone impervie delle isole, piene di scogli, e bambini e persone disabili si trovano in notevole difficoltà. In ogni caso la Guardia costiera greca si trova a operare in condizioni difficili, con poco personale e risorse a causa del collasso del sistema economico. Per fortuna, qui come altrove, sono centinaia i volontari che si mettono a disposizione, sia per darsi da fare direttamente sia per raccogliere indumenti, giochi. Tra Serbia e Ungheria, ultimamente, gruppi di persone stanno garantendo colazioni e cene a gran parte delle migliaia di persone che arrivano.

Qual è la presenza attuale dell’Unhcr in Grecia e nelle frontiere “calde” come Grecia-Macedonia e Serbia-Ungheria?
Già dall’inizio del 2015, quando iniziavano ad aumentare i numeri degli sbarchi sulle isole greche, abbiamo aumentato la presenza in quei territori, anche perché per esempio in Grecia non c’era alcun sistema di accoglienza e quindi si rendeva necessaria una strutturazione degli interventi. Sull’isola di Lesbos, per esempio, dopo essere sbarcati i profughi camminavano decine di chilometri per arrivare a un centro di Polizia: noi siamo intervenuti supportando i costi di un servizio di pullman che ora porta direttamente queste persone a identificarsi. Ad Atene, invece, dato che le persone dormivano nei parchi e nelle piazze abbiamo messo a disposizione un esperto di pianificazione per creare una struttura di prima accoglienza. L’obiettivo, in ogni situazione, è aiutare senza però sostituirsi alle responsabilità dei singoli governi sia chiaro. Con il passare dei mesi e l’esplosione dei numeri fino alla grave situazione attuale siamo intervenuti con la fornitura di cibo, acqua e materassi, in collaborazione con ong locali. Lo stesso sta avvenendo alla frontiera con la Macedonia, dove da giugno, oltre alla presenza degli operatori in attività di “cuscinetto” per comunicare costruttivamente con le forze di polizia e i rifugiati, abbiamo installato bagni e spazi di ristoro, e lo stesso abbiamo attivato da poco tra Serbia e Ungheria, raggiungendo il numero di oltre un centinaio di operatori Unhcr presenti nell’area.

In che condizioni trovate i profughi che attraversano l’Est Europa?
Nella maggior parte è gente che ha lasciato la guerra da poco, ci sono persone amputate e con le ferite non ancora rimarginate, bambini con schegge di bombe e proiettili. Poi c’è chi era transitato in campi profughi in Turchia come in Libano o Giordania e ha deciso di ripartire per le condizioni estreme in cui si è venuto a trovare (persone, in particolare i siriani, che prima della guerra conducevano una vita del tutto normale, ndr): l’85% degli oltre 600 mila di rifugiati siriani in Giordania, per esempio, vive oggi sotto il livello di povertà, con meno di 3,2 dollari al giorno, e le famiglie sono obbligate a ritirare i bambini da scuola per farli lavorare, mentre anche dal punto di vista della salute è un disastro con numeri alle stelle di diabete a altre malattie croniche. Per questo sono disposti a rimettersi in mare fino in Grecia e poi camminare centinaia di chilometri nell’Europa orientale.

Da più parti, in Italia come altrove, soffia forte il vento dell’opposizione all’accoglienza, di chi vede nei profughi una minaccia, sia nell’opinione pubblica che a livello politico. Qual è la posizione dell’Agenzia Onu per i rifugiati a riguardo?
L’Unhcr stigmatizza ogni strumentalizzazione politica, perché porta a una visione distorta della realtà ed è devastante, perché chi attacca i migranti sapendo che è un tema che porta voti, nei fatti divide la società. Per questo sono importanti le recenti parole di Angela Merkel: ogni singolo episodio di intolleranza va denunciato, e bisogna lavorare per una comunicazione più corretta possibile. In Italia, per esempio, è importante tranquillizzare l’opinione pubblica: i posti per l’accoglienza ci sono, siamo a 80mila presenze ma si può arrivare senza problemi di spazi a cifre più consistenti. In più nella gran parte dei casi (scandali a parte, ndr) ci sono le giuste professionalità per lavorare all’accoglienza, e ci lavorano italiani, quindi è un settore che comunque dà lavoro in tempi di crisi.

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