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Detroit, la fenice urbana che prova a risorgere grazie agli immigrati
L’ex capitale dell’auto Usa contava più di due milioni di abitanti negli anni Settanta, oggi ne ospita circa 600mila. Dopo le rivolte urbane, le tensioni razziali e il dilagare della criminalità la città prova a ripartire. E lo fa investendo negli immigrati e nelle associazioni spontanee
«Amo Detroit, soprattutto perché non si arrende mai. Ma penso che la città non si riprenderà più». Di conversazioni come questa con il professor Marick Masters, esperto di relazioni industriali alla Wayne State University, a Detroit se ne fanno con chiunque si incontri. Difficile non interrogarsi sul futuro: la città capitale dell’auto, che contava più di due milioni di abitanti negli anni Settanta, oggi ne ospita circa 600mila. Colpa certamente della crisi dell’industria dell’auto (da 450mila lavoratori nel settore nel 1970 si passa ai 50mila addetti di oggi), ma anche delle tensioni razziali e delle rivolte rubane che hanno generato violenza e crimine e fino ai primi anni Duemila l’hanno resa uno dei posti più insicuri d’America.
Il declino ha colpito tutte le zone della città: nei suburbs distese di prati hanno sostituito le villette unifamiliari, vendute dai proprietari, bruciate e quindi demolite, e i grandi impianti industriali sono stati abbandonati dopo aver tolto i macchinari, per spostarli, insieme alla produzione, in Asia. Ma è il centro della città a colpire: a downtown, dove c’è la sede della General Motors, in uno spazio di circa due chilometri quadrati, vivono stabilmente solo 6mila persone. L’impressione è quindi quella del guscio vuoto di una città enorme: per strada, il sabato pomeriggio non c’è in giro nessuno, e i grattacieli continuano a detenere un record, quello del più alto numero di grattacieli vuoti di tutti gli Stati Uniti.
Le casse del comune hanno pesantemente risentito dei cambiamenti, e la città di Detroit è fallita nel luglio del 2013, sotto il peso di pensioni del pubblico troppo onerose perché parametrate su stipendi che il privato non pagava più, e di bisogni sociali crescenti.
Eppure, da circa 5 anni la città presenta una vitalità sorprendente: alcuni imprenditori stanno facendo dei grandi investimenti immobiliari, il nuovo capo della polizia ha abbattuto gli indici di criminalità, rendendo il centro una zona nuovamente fruibile da tutti, si sono costituite esperienze di cittadini come Experience Detroit o Global Detroit che vogliono riappropriarsi della città e riattivare le energie delle comunità residenti e attirare immigrati per ripopolare la città e perché spesso le comunità immigrate negli Stati Uniti sono più creative, innovative e vivaci dal punto di vista imprenditoriale.
Un tentativo che visto dall’Italia pare azzardato: da noi c’è chi prova a tenere lontani gli immigrati dalle città per la paura che possano rubarci la prosperità. L’integrazione non è un miraggio ma è possibile: a Dearborn, la città che confina con Detroit c’è la più grande comunità arabo-americana d’America, che ha saputo gestire con saggezza lo shock del post-11 settembre, riaffermando la propria identità americana-araba, come testimoniato dalla bandiera a stelle e strisce che sventola davanti alla moschea della città, la più grande d’America.
Detroit è sempre stata piena di energie creative: il Detroit Institute of Arts è uno dei sei musei più importanti di tutti gli Stati Uniti e ospita il ciclo di murales di Diego Rivera considerato dall’artista messicano come il più riuscito della sua carriera. In città si continua a sperimentare: il progetto di arte comunitaria Hilderberg, che utilizzando scarti crea un quartiere di sorprendente allegria, attira 300mila visitatori l’anno. “Speramus meliora resurget cineribus” fu il motto scelto dai fondatori della città: con lungimiranza si augurava a Detroit la capacità di rigenerarsi dalle ceneri, come una Fenice urbana.
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