Politica

Le armi italiane vanno sempre più verso paesi in guerra

Sono passati 25 anni dall’approvazione della Legge 185/90: in questi anni l'Italia ha autorizzato esportazioni di armi per 54 miliardi di euro, sempre più spesso verso paesi in guerra. La legge ha perso efficacia e capacità di controllo? Rete Disarmo si appella al Governo affinché ripristini la trasparenza, per una gestione più responsabile

di Redazione

Sono passati 25 anni dall’approvazione della Legge 185/90. Venticinque anni fa quella legge era uno strumento avanzato di supervisione e regolazione dell’export militare, oggi invece quello strumento ha perso efficacia e capacità di controllo. Rete Disarmo si appella al Governo affinché ripristini la trasparenza, per una gestione più responsabile delle vendite di armi.

In questi 25 anni i sistemi militari italiani sono stati esportati a ben 123 nazioni, tra cui alle forze amate di regimi autoritari di paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto, la Libia, la Siria, Kazakistan e Turkmenistan, a paesi in conflitto come India, Pakistan, Israele ma anche la stessa Turchia, fino a paesi con un indice di sviluppo umano basso come il Ciad, l’Eritrea e la Nigeria. I dati sono contentui nel dossier di ControllArmi, presentato ieri in occasione del 25 anni della legge 180/90.

Che tipo di controlli siano stati messi in atto sull’utilizzo da parte dei destinatari finali non è dato di sapere. Nel corso di questo 25 anni sono state autorizzate esportazioni dall’Italia, in valori costanti, per oltre 54 miliardi di euro e consegnati armamenti per più di 36 miliardi con un trend decisamente crescente nell’ultimo decennio. In particolare, il 50,3% delle esportazioni ha riguardato paesi al di fuori delle principali alleanze politico-militari dell’Italia e cioè i paesi non appartenenti all’UE o alla Nato: un dato preoccupante se si considera che – secondo la legge 185/1990 – le esportazioni di armamenti «devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia».

Ma ancora più preoccupanti sono le zone geopolitiche di destinazione: se primeggiano i paesi dell’UE (più di 19,4 miliardi di euro pari al 35,9%), sono però di assoluto rilievo anche le autorizzazioni per esportazioni di sistemi militari verso le aree di maggior conflittualità del mondo come i paesi del Medio Oriente e Nord Africa (MENA) che nell’insieme superano i 12,5 miliardi di euro (23,2%) e dell’Asia (8,3 miliardi pari al 15,4%). Ai paesi del Nord America sono stati esportati armamenti per 5 miliardi (9,3%) mentre ai Paesi europei non-Ue (tra cui la Turchia) per oltre 3,8 miliardi (7,1%). Minori, ma non irrilevanti, anche le autorizzazioni che riguardano i paesi dell’America Latina (2,4 miliardi pari al 4,5%), dell’Africa subsahariana (oltre 1,3 miliardi pari al 2,4%), tra cui soprattutto Sudafrica e Nigeria, e dell’Oceania (1,1 miliardi pari al 2,1%). E proprio verso le zone di maggior tensione del mondo, come i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, sono andate crescendo negli ultimi anni le esportazioni.


Nei primi anni di applicazione i principi innovativi della Legge e il controllo, esercitato anche tramite una Relazione al Parlamento da parte del Governo, hanno permesso la diminuzione delle vendite verso Paesi con situazione problematica o in conflitto più o meno conclamato. Un trend che purtroppo si sta modificando in maniera netta negli ultimi anni. «I numeri non mentono – sottolinea Giorgio Beretta analista di OPAL Brescia – e se nel quinquennio 2005-2009 è stata l’Unione Europea ad essere l’area di maggior vendita delle armi italiane, in quello successivo il primato è invece andato al Medio Oriente e al Nord Africa. Regioni tra le più turbolente del globo». A guidare la classifica dei paesi destinatari dei sistemi d’arma “made in Italy” ci sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, seguiti a ruota da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Vengono poi la Germania, la Turchia, la Francia e la Spagna; completano la Top12 Paesi problematici (dal punto di vista dei conflitti e delle turbolenze) come Malesia, Algeria, India e Pakistan. «Ma se ci limitiamo agli ultimi cinque anni – conclude Beretta – ai primi posti ci sono Algeria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, con il solo inserimento degli onnipresenti Stati Uniti al terzo posto. E’ chiaro dunque in che direzione stiano andando gli affari dell’esportazione militare italiana».

Con le modifiche più recenti del testo e i Regolamenti attuativi, che danno ad un ufficio del Ministero degli Esteri e non più alla Presidenza del Consiglio il vero coordinamento decisionale in materia, la realizzazione effettiva dei principi di fondo della Legge nel gestire ed indirizzare il commercio di armi italiane non è più così efficace e rispettosa dell’idea di fondo del legislatore. In tutto questo, come elemento non banale ma anzi funzionale a vendite problematiche, si inserisce anche una progressiva perdita di trasparenza: la Relazione governativa al Parlamento non è più “quella di una volta” e non esplicita più in maniera fruibile tutti dati che sarebbero necessari per poter comprendere la situazione. I dati quantitativi dell’export di armamenti offrono infatti importanti indicazioni per esaminare la politica esportativa adottata in questi anni dai vari governi, ma per verificare la corretta attuazione della prescrizioni della legge occorrerebbe un’analisi dettagliata degli specifici sistemi d’armamento esportati dall’Italia nei vari paesi. E’ proprio questa verifica che nel corso degli anni è diventata sempre più difficile tanto da renderla oggi praticamente impossibile.

Mentre, infatti, le prime Relazioni consegnate al Parlamento riportavano con precisione, e in un chiaro quadro sinottico, il sistema d’arma esportato per quantità e valore, la ditta produttrice e il paese destinatario, nel corso degli anni queste informazioni sono state scorporate in una serie di tabelle che oggi non permettono più di conoscere le armi effettivamente esportate verso i diversi paesi acquirenti. Inoltre nel corso degli ultimi anni è stato reso impossibile conoscere le singole operazioni svolte dagli istituti di credito: un fatto che ha favorito soprattutto i gruppi bancari esteri – come BNP Paribas e Deutsche Bank – che, a differenza di gran parte delle banche italiane, non hanno adottato politiche di responsabilità sociale riguardo ai finanziamenti all’industria militare e ai servizi per esportazioni di armi. Nel contempo è venuta meno anche l’attività di controllo del Parlamento. Dopo anni di pressioni da parte della Rete italiana per il Disarmo, lo scorso febbraio 2015 le competenti commissioni della Camera sono tornate ad esaminare la Relazione governativa: ma la seduta è durata meno di un’ora e al momento non si ha notizia di ulteriori iniziative in Parlamento.

«Stiamo parlando di armi, non di noccioline! – afferma Francesco Vignarca coordinatore della Rete italiana per il Disarmo – siamo quindi in un terreno sul quale non possiamo certo agire con leggerezza. Secondo la Legge e secondo il buonsenso (indipendente da avere o meno posizioni disarmiste) l'export militare italiano dovrebbe essere in linea con la politica estera del nostro Paese; ma negli ultimi anni la direzione è invece stata principalmente quella degli affari», conclude Vignarca.

La Rete Disarmo ha scritto nei giorni scorsi, come fatto già numerose volte in passato, al Presidente del Consiglio Renzi e al Ministro degli Esteri Gentiloni per chiedere una maggiore attenzione ed un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni, sia dal punto di vista del controllo sia dal punto di vista delle decisioni sulla destinazione delle armi italiane. «Non possiamo lamentarci che il Mediterraneo ed il Medio Oriente siano una polveriera di conflitti quando siamo anche noi responsabili di molte delle forniture di armi, vera benzina che poi va alimentare il fuoco delle guerre», conclude Francesco Vignarca.

Foto di copertina GettyImages

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