Famiglia

Io, padre detenuto cioè padre che non c’è

Lettere dal carcere

di Riccardo Bonacina

Mi è capitato di leggere il resoconto del seminario, svoltosi nel carcere di San Vittore, che aveva come tema il rapporto genitori detenuti- figli. Da padre carcerato vorrei poter aggiungere una parola in più, un contributo affinché i lettori possano almeno in minima parte comprendere cosa significhi essere genitore detenuto, e come realmente noi che siamo in carcere paghiamo per i nostri errori, e come soffriamo nel pagarli, e nel comprendere poi nel tempo il male che causiamo ai nostri figli con la nostra “non presenza”. Mi chiamo Enrico e parlerò della mia situazione personale. Ma come me altri detenuti, con i quali ho avuto modo di confrontarmi su questo problema, soffrono per la loro situazione familiare, per i rapporti che si sono nel tempo modificati con i loro figli. Purtroppo tutti tendiamo a nascondere quello che è un grave disagio familiare, e a volte non vogliamo dire neppure una parola su questo per paura di stare troppo male. Vorrei portare un piccolo esempio per far capire come stanno le cose realmente: un mio amico, e come me padre detenuto, qualche tempo fa viene a sapere che il figlio in casa non si sta più comportando in modo corretto, rientra a ore esageratamente tarde, cosa che per un ragazzo di tredici anni è inaccettabile, e ogni volta che la madre tenta di spiegargli che non va bene così, che lei ha paura, lui le si rivolta contro in maniera aggressiva. Il padre al colloquio cerca di richiamare suo figlio con garbo e di riportarlo alla ragione, e per tutta risposta si sente dire che non deve rompere i coglioni, in quanto come padre non c’è stato mai quando la famiglia ne aveva bisogno, e poi non è lui a mantenerlo, e in casa ha portato solo fame disperazione e dolore. Ora non si parlano più, e il figlio non va più a trovarlo: ecco perché è così difficile parlare di problemi così delicati. Io sono detenuto da dieci anni, oggi più distaccato che mai da mio figlio, distaccato non per mio desiderio, o per colpa di quelli che fuori cercano di seguirci come possono, pur di non spezzare il sottile legame tra genitore detenuto e figlio. Il fatto è che la mia vita affettiva ora è in crisi e vedere mio figlio è diventato ancor più difficile, anche perché il lavoro che fa la madre di mio figlio non le permette molte possibilità, sia di tempo che economiche: da Milano per venire fin qui a Padova, entrare a fare colloquio e ritornare ci vuole una mezza giornata, e almeno centomila lire, salvo complicazioni per il viaggio. Mi definisco un “padre doppiamente castigato”, perché non solo mi trovo in galera da molti anni, ma ho un figlio che ha seri problemi motori in quanto cerebroleso, io non l’ho nemmeno visto nascere, e lui il suo papà lo ha potuto avere vicino concretamente solo in pochissime occasioni, solo quando versava in pericolo di vita ed era intubato. Poi, quando è cresciuto, il mondo di suo padre lo ha visto sempre sotto forma di sbarre, cancelli, salette colloqui squallide, prive di ogni cosa che potesse dare un senso meno crudele della realtà. Il mio rapporto con lui, quello che tristemente ho con mio figlio, si può benissimo definirlo un non rapporto. Ho sempre pensato che questa situazione di mio figlio in qualche modo mi avrebbe dato la possibilità almeno di stare più a lungo con il bambino ai colloqui o di ottenere quella salettina dove stare da soli senza quel baccano che la sala comune produce. Niente di tutto questo: le salette sono due ed è difficile ottenerle, e poi qui a Padova il sabato non è possibile fare le due ore di colloquio, neppure per coloro che di problemi ne hanno molti, e seri. Imporre alle famiglie dei detenuti condizioni di incontro così avvilenti significa non aiutare certo i figli a mantenere saldi gli affetti e a desiderare i colloqui. Il carcere in realtà distrugge pian piano relazioni, affetti, rapporti con i figli, mentre basterebbe solo un po’ più di umanità per rendere meno precari i nostri legami familiari. Enrico Flachi, da Ristretti


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