Cultura

Benvenuti al museo orgia firmato Sgarbi

Capolavori stipati sulle pareti del padiglione di Eataly. Alcuni appoggiati persino per terra. Grande confusione per quanto riguarda i cartellini. Visita a uno dei più incredibili flop di Expo 2015…

di Giacomo Ratti

All’ingresso due ragazzi, della serie «con quello che ci pagano non pretenderete che sorvegliamo quel che succede in tutte le sale della mostra», smettono per un attimo di ammazzare il tempo digitando sul monitor dello smartphone: «Con lo zaino non si può entrare».

Ok, dove si può lasciarlo? Guardaroba o armadietti non ce ne sono. «Può lasciarlo qui per terra, nell’angolo dietro la porta: lo guardiamo noi, tranquillo». E meno male che non si vede all’orizzonte nessuna scolaresca di studenti, che impedirebbero al mio zaino di far la figura del figlio orfano di madre vedova. Le scolaresche, in effetti, stanno festosamente facendo vasche fra il cardo e il decumano, sciamando chiassose verso i padiglioni che il tam tam popolare ha subito identificato come quelli da non perdere, secondo un criterio oggettivo come pochi: se c’è coda, vale la pena: se non c’è nessuno, non c’è nulla da vedere.

E qui, alle 11 del mattino, all’ingresso de “Il tesoro d’Italia”, nonostante la garanzia fornita dalla premiata ditta Farinetti & Sgarbi, di fila non ce n’è nemmeno l’ombra (mentre invece è sempre chilometrica davanti al Palazzo Italia che lo stesso Sgarbi ha definito “cesso immondo”).

Solo una coppia di anziani turisti tedeschi, salita forse per caso al primo piano del padiglione di Eataly dopo aver superato la fila di ristoranti regionali al pianoterra e un po’ d’opere d’arte assortite lungo le scale, si ferma incuriosita e titubante, quasi incredula che quello lì sbattuto contro il muro a livello del suolo sia un bassorilievo di Andrea Della Robbia e che davvero al di là del cordone si possano trovare opere di Perugino, Donatello, Tiziano, Lorenzo Lotto, Guido Reni, De Chirico. Roba che, secondo il criterio di valore applicato nel maremagnum di Expo Milano 2015, ha poco valore di mercato.

Così, per convincere i due tedeschi a entrare, bisogna ripetergli due volte che qui (Sgarbi dixit) si documenta “l’arte rappresentativa della biodiversità artistica delle regioni del nostro paese”. In effetti, dai tornelli della stazione di Rho-Fiera in qua, indicazioni e suggerimenti latitavano completamente. Né fornisce un aiuto maggiore la statua porno-vegetale di Luigi Serafini, la Donna-carota collocata come benvenuto fuori della mostra. Per Vittorio Sgarbi insomma questo sarà anche “il Louvre di Expo”, ma qualche dubbio sorge, anche se qui siamo arrivati con le intenzioni migliori, provando a tapparci le orecchie ai commenti malevoli che impazzano sulla Rete (“supermercato dell’arte italiana”, “gran calderone”, “ammucchiata”, “orgia espositiva” ecc.).


Troppo facile sarebbe (lo hanno già fatto in tanti) soffermarsi sugli accostamenti incongrui, sul caos che pare sfidare il caso, sugli artisti delocalizzati da una regione all’altra (ma Donatello, qui con una statua di San Girolamo, spetta alla Toscana o al Veneto?), sulla frammistione di alto e basso dove le opere sono appunto collocate un po’ in alto e un po’ in basso, dal pavimento al soffitto un po’ come càpita, quasi in preda a una febbre da horror vacui espositivo.

Si procede dalla Val d’Aosta alla Sicilia e si comprende sempre meno, distratti e impossibilitati a commuoversi o entusiasmarsi anche quando l’opera davanti agli occhi è, oggettivamente, sensazionale. Ognuno ovviamente riserva uno sguardo privilegiato alla propria regione. A noi, la sezione ligure riserva, fra il resto, una splendida Elemosina di san Lorenzo di Bernardo Strozzi, che però appartiene al periodo veneziano del pittore, e un paesaggio di Portofino dell’eccelso divisionista Rubaldo Merello, che qui meritava di essere più valorizzato.

Insomma, si procede in solitudine, sempre più disorientati, anche per la frequente assenza di cartellini esplicativi, pensando a quanto sarebbe facile usare un pennarello o un coltello a fin di male (sulle tele, non sui cartellini).

Vien da rimuginare su che cosa imprima a un’opera il carattere di una regione anziché di un’altra: il tema o il paesaggio rappresentato? Il sito di nascita dell’artista? Il luogo di esecuzione dell’opera? Il museo o la chiesa in cui è conservata? Mah… Neppure il tempo per capirlo, che si profila davanti agli occhi un’“opera” rappresentativa del genio abruzzese: l’originale del 1294 della Bolla del Perdono di Celestino V!

Desacralizzata e decontestualizzata quanto basta perché cada pure l’ultima domanda sul cosa c’entra o cosa non c’entra, e viene davvero la tentazione di opporre al tutto un “gran rifiuto”. Pretendere che Sgarbi abbia voluto mettere le mani avanti, chiedendo venia e perdono della sua sicumera, sarebbe accreditargli una vena d’umiltà che non gli appartiene. Però, quella rinascimentale Santa Caterina d’Alessandria del presunto romagnolo Francesco Zaganelli, quando e dove mai avremmo avuto occasione di conoscerla?

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