Welfare

Pagano, vicecapo Dap: “In carcere tira aria di cambiamento, sfruttiamola”

Il 5 e il 6 giugno agli stati generali della Cnvg, Conferenza nazionale volontariato e giustizia, siederanno attorno a un tavolo vertici dell'amministrazione penitenziaria, politici, operatori e volontari del mondo del carcere. "La svolta è epocale: si ragiona finalmente di carcere come extrema ratio e si dà priorità alle pene alternative, ora puntiamo a rendere agevole l'ingresso delle aziende nel sistema"

di Daniele Biella

“Il periodo è ottimale, bisogna sfruttarlo il più possibile. Avete sentito cos’ha detto il ministro della Giustizia? Il carcere deve essere visto solo come extrema ratio”. In decenni di lavoro nel Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’attuale vicecapo Luigi Pagano ha vissuto raramente un periodo così propositivo come l’attuale: “da almeno un anno a questa parte si ragiona sulla pena come avrei voluto si ragionasse da sempre”, spiega a Vita.it a pochi giorni dalla propria partecipazione, assieme a tante altre figure di riferimento, all'Assemblea annuale della Cnvg, Conferenza nazionale volontariato giustizia, che si tiene a Roma il 5 e 6 giugno con il titolo “Lo stato della pena”.

Solo un paio di anni fa il problema del sovraffollamento dava l’assoluta maglia nera al sistema detentivo italiano. Ora l’aria è diversa, cosa è cambiato?

L’inversione di tendenza è stata due anni fa sia la lettera del presidente Napolitano alle Camere che spingleva la politica a entrare in azione per migliorare la situazione, sia la sentenza della Corte europea per i diritti umani di Strasburgo, che condannava l’Italia per il caso Torreggiani e che spronava il Governo a cambiamenti strutturali per non incappare in provvedimenti molto salate. Questo ha dato la scossa a tutti, permettendo di migliorare le condizioni detentive e i numeri, che sono scesi ai 54mila attuali – e fissi da 12 mesi – rispetto ai 66mila del periodo più grave del 2013.

Qual’è l’aspetto che la rende più ottimista?

L’aumento delle pene alternative introdotto con le ultime azioni legislative. Invocavamo da decenni un cambiamento in tal senso, ovvero un nuovo modo di vedere la pena, improntato in primo luogo al superamento del carcere in senso stretto come unica via di recupero sociale del detenuto. Poi il reinserimento, che passa attraverso il lavoro, con maggiore attenzione ai diritti dei reclusi, e quindi anche del personale. Per esempio, si dovrebbe riportare la cella a luogo di mero pernottamento e nello stesso tempo creare spazi di vita relazionale in altri luoghi degli istituti.

Ma la burocrazia è ancora tanta per un’impresa esterna che volesse assumere o dare lavoro, e oggi ci si basa molto su Cassa ammende per avere incentivi.

Sì, ma la direzione è tracciata. Ci vuole una normativa specifica sul lavoro penitenziario, che permetterebbe di uscire dall’univocità della presentazione dei progetti a Cassa ammende a vantaggio di un sistema generale che porti anche a un vero tornaconto per i privati senza danneggiare i diritti dei detenuti e dando risalto ai momenti trattamentali. Per fare questo bisogna rimodulare tutti i tempi attuali del carcere, le stesse attività trattamentali devono essere strutturate in funzione del lavoro e non viceversa. Per esempio, un lavoro “normale” non può essere interrotto per un colloquio, bisogna rendere più elastico il sistema per dare più garanzie al privato, sociale o meno, che voglia investire nel carcere.

Ci sono carceri già più aperte in tal senso, e altre dove è difficile pensare a cambiamenti, dato che spesso dipende dalla sensibilità dei vertici delle singole strutture…

Si tratta di una rivoluzione culturale che è lenta, ma è già stata messa in moto e le parole del ministro in tal senso ne sono la prova. Sempre più direttori si stanno rendendo conto che l’architettura attuale di molti istituti penitenziari oggi è “povera”, come accennavo sono pochi i luoghi di incontro, di socialità: aumentare tali spazi, naturalmente controllati, significa non ridurre la detenzione a troppe ore passate in cella e poche fuori, perché la cella crea inevitabilmente tensioni. Poco alla volta questo nuovo pensiero, grazie alle direttive del capo dipartimento, sta prendendo piede: sono già partiti dei lavori con il finanziamento di Cassa ammende, anche nelle Case circondariali.

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