Sostenibilità

Se il cibo è business, non nutre il pianeta. Intervista allo chef Aimo

Lo chiamano "food", ma si chiama "cibo". Cibo significa cultura, libertà, ma anche dignità, rigore, attenzione all'altro. Ne parliamo con Aimo, uno dei grandi maestri della cucina italiana, che ricorda come il cibo semplice, che alcuni chiamano con disprezzo "povero", è la vera risorsa per uscire dalla crisi

di Marco Dotti

È qui dal 1962, il “Luogo di Aimo e Nadia”, in via Montecuccoli, periferia ovest di Milano. Quando arrivarono in zona, ricorda Aimo Moroni, uno dei più grandi maestri della cucina italiana, “non c’era nemmeno l’asfalto”. Classe 1934, di Pescia, in provincia di Pistoia, Aimo è arrivato a Milano da emigrante, in treno. Aveva solo 12 anni e per mantenersi ha fatto di tutto, dal lavapiatti al gelataio.

Lavoro, frugalità, rigore non sono, per lui, solo parole d’ordine buone per qualche chiacchiera in salotto. Sono parole chiave di una ricerca durata una vita. Parole su cui – in questa periferia, dove sorgeva una vecchia bocciofila, eoggi c’è un ristorante tra i più raffinati d’Italia – gli abbiamo chiesto di interrogarsi e interrogarci. 

Oggi tutti parlano di "cibo", cucina, alimentazione. Non è un po' troppo?

Aimo: Parlare, comunicare, dibattere di cucina richiede molta attenzione. Perché la cucina non è business, ma cultura, storia, lavoro, economia, comunità, relazione, civiltà nel senso più ampio e al tempo stesso concreto che questo termine può assumere. Purtroppo, oggi, si comunica altro. E quest'altro è un'idea indifferenziata, volgarizzata o d'élite che sia, della cucina.

Lei propone una cucina semplice. Potremmo chiamarla una cucina povera?

Aimo: La chiamerei delle "differenze". Noi dovremmo concentrarci infatti non sull'omologante, ,a sulle differenze, che alcuni chiamano con disprezzo “povertà”, per meglio coglierle e capirle, comprendendo che la territorialità dei prodotti e la frugalità non sono un vizio, che certi loro “inestetismi” non sono un difetto e, soprattutto. che la stagionalità di quei prodotti è un valore. È un “lusso” che proprio ora dobbiamo permetterci. Proprio la stagionalità è qualcosa che ci induce a ristabilire un rapporto virtuoso con il tempo. Abbiamo sempre fretta, vogliamo cose rapide, facili da cucinare, vogliamo la quantità, cediamo al capriccio. Fermiamoci e ricominciamo, basta poco. Ma serve attenzione.

Che cosa intende Aimo con la parola “attenzione”?

Aimo: Particolarmente in giorni di crisi, attenzione significa mettersi alla ricerca del valore vero e non di quello nominale delle cose e cogliere quelle differenze che possono rivelare una complessità che credevamo perduta, ma avevamo semplicemente, e forse non meno drammaticamente perso di vista. Una complessità che è l'indice stesso del nostro rapporto col luogo e della nostra relazione con gli altri. Io prendo prodotti da quel coltivatore e da quel allevatore: gente che conosco per nome e in volto e con la quale ho stabilito una fiducia non commensurabile in termini di mero denaro, non permettendo che tutto si dissolva nell'anonimato della grande industria o della grande distribuzione. Abbiamo troppo ceduto alla tentazione delle cose semplici.

E per semplicità? Che cos'è questa semplicità, per Aimo?

Aimo: Tutto è semplice, ma non esiste semplicità senza lavoro, pazienza e anche un po' di fatica. Per questa ragione io credo nella relazione tra gli uomini e la loro terra, magari declinata in quei pochi metri di appezzamento che danno un carciofo o un vitigno particolarmente ricco, mentre spostandosi di pochi centimetri questo non succede più. È una strana e ben complessa alchimia, ma è una ricchezza di tutti e per tutti. Questo ci rimanda a un'idea di cura che risiede nel ben mangiare.

Sembra una filosofia…

Aimo: Lo è. Già Ippocrate, d'altronde, diceva che il primo nostro medicamento è il cibo che mangiamo. Ma c'è anche un'altra cura, implicata da questa idea di cucina: è la cura richiesta dal ricercare, del coltivare, dall'attendere e dal pazientare, dall'imparare sempre e comunque, con umiltà, dalle cose e dalle tradizioni. La mia opinione è che un nesso fondamentale lega cucina e etica del lavoro ed è su questo nesso – ben chiaro all'economia frugale dei nostri padri e dei nostri nonni – che dobbiamo insistere.

Lei insiste molto sul ritorno delle tradizioni, eppure nella sua cucina e nell'idea che questa cucina possa costituire una fiaccola piccola ma tenace nel buio della crisi tutto appare, in senso forte, moderno…

Rivolgersi al passato può sembrare un atteggiamento nostalgico ma io ritengo che, soprattutto ora, specialmente per i giovani il passato sia uno slancio. Sono profondamente convinto che se riportassimo in tavola la cucina povera e stagionale dell'Italia post-bellica, quella che non sprecava nulla, che riutilizzava tutto, che sul pane del giorno prima spalmava burro e zucchero per la colazione dei bambini, faremmo prevenzione, progresso e cultura a costo zero.

Un'economia frugale è un'economia della qualità, non della quantità. È un'economia della festa, del piacere e dell'equilibrio, non dello squilibrio permanente. Tornare a questa economia non significa fare un passo indietro, ma valorizzare eccellenze. Questo sarebbe importante soprattutto per le giovani generazioni e per i bambini.

Per un bambino, la conoscenza del mondo passa anche attraverso la bocca, attraverso il gusto e il palato. Non solo per un rapporto tra gusto, piacere e elaborazione di certi dati sensoriali – un neurologo potrebbe parlare meglio di me, su questo tema –, ma anche perché se un bambino si convince che il latte è una “cosa” che, “semplicemente”, si trova in un cartone al un supermercato, come un bibita, probabilmente non si renderà conto di cosa sta dietro a quel latte – lavoro, passione, fatica, intrapresa, cura – per lui la crisi sarà solo e soltanto declinata nei termini di una crisi del consumo. Invece la crisi attuale è una crisi di cultura e di etica del lavoro. Se non si capisce questo si provoca un danno enorme alla società, sia in termini di salute, sia in termini di memoria, sia in termini di progetto e innovazione.

C'è però il problema dei prezzi al ribasso e di una strana rimozione linguistica: nessuno parla più di cibo, tutti parlano di "food", rimuovendo l'altro lemma del discorso, ciò che rende quel "food" cibo spazzatura, "junck food".

Aimo: Per il basso prezzo corrisposto all'origine al produttore, talvolta i produttori sono costretti al di là della loro coscienza o volontà a usare additivi, pesticidi, trattamenti di vario tipo che accelerano la crescita e fanno decadere la qualità del prodotto. Se tutti fossero pagati il giusto, la qualità sarebbe al centro di una sana economia perfettamente sostenibile. Tutti i passaggi sarebbero rispettati, mentre la concorrenza al completo ribasso e la forbice assolutamente insostenibile. Bisogna però spiegare alla gente che certi cibi “poveri”, certe parti di una animale ritenute – a torto – poco “nobili”, spesso sono le migliori.

Ci può fare un esempio?

Aimo: In un bovino ci sono 10 kg di filetto e 350 kg di polpa. Il filetto costa caro, è morbido e cuoce in fretta… da questo se ne dedurrebbe che nel filetto risieda la miglior qualità. Eppure, in un'ipotetica classifica gustativa il filetto è al quinto posto (dopo la coda, la guancia, lo scamone…). Lo stesso potremmo dire del pollo o di altri cibi. Bisogna rovesciare certi luoghi comuni. Oggi la gente va, compera, cuoce, consuma e assume come un dato di fatto ciò che i media e il mercato impongono. Viviamo in una società che anestetizza il piacere, ma aumenta la dipendenza. Dobbiamo invertire questa tendenza. Partendo anche dalla cucina.

@oilforbook

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