Economia
L’impresa sociale? Più che low profit interessa che sia low cost
Nel corso della discussione alla Camera è stato richiamato il libro "Contro il non profit" firmato dal sociologo Giovanni Moro. L'intervista
di Redazione
Dopo oltre 40 incontri su e giù per l’Italia e un anno di presentazioni, grazie al suo “Contro il non profit”, Giovanni Moro, docente di Sociologia politica alla Facoltà di Scienze della formazione dell'Università di Roma Tre e presidente di Fondaca si è meritato anche una citazione in parlamento nel corso delle discussione sulla riforma del Terzo settore. «Come ha reso noto anche l'autore, Giovanni Moro, nel suo libro “Contro il non profit”, i dati che testimoniano la mercatizzazione delle imprese cosiddette sociali sono disponibili a tutti, ma vengono ignorati più o meno volontariamente», ha fatto mettere agli atti della Camera dei Deputati il relatore di minoranza in quota Lega Nord, Marco Rondini.
Professore ha visto, il suo “Contro il non profit” viene usato come freccia all’arco di chi vorrebbe impallinare la riforma, cosa ne pensa?
Il fatto che un parlamentare legga un libro di per sé è una buona notizia, quindi non mi lamento. Parlare di “mercatizzazione” del non profit poi non è fuori luogo. Però intendiamoci, questo è un fenomeno che già esiste a prescindere dalla riforma.
A proposito, qual è il suo giudizio sulla delega?
Faccio una premessa: a condizioni date e viste le tante tensioni e pressioni di cui è stata oggetto, la Commissione Affari Sociali e la relatrice della legge hanno lavorato con impegno. Poi però quando è venuto il momento di tirare le fila sono prevalse tre spinte “lottizzatrici” .
Quali?
La prima è proprio quella di applicare una logica mercatistica al welfare. Si parla di ritorno sull’investimento e di misurabilità economica dei servizi resi. Ma la misurazione non può essere esclusivamente economica perché così si taglia fuori gran parte delle cose positive che vengono fatte. Seconda “lottizzazione”: la riforma eccede nell’ansia di regolamentare tutta la galassia del cosiddetto non profit. Io dico: va bene imporre regole e controlli a chi usa i fondi pubblici, ma non devi arrivare a dettarmi le condizioni per esistere. Terza “lottizzazione”, legata alla seconda: ho la sensazione che la legge prefiguri una sorta di “Confindustria del Terzo settore”, un comodo interlocutore unico delle istituzioni, a cui fra l’altro vengono affidate le potestà di controllo. Che poi è il meccanismo dell’autocontrollo delle cooperative, i cui effetti abbiamo visto con Mafia Capitale.
Si riferisce al Forum del Terzo settore…
Mi pare che loro siano stati fra i più reattivi ad applaudire al testo uscito dalla Commissione.
Aspetti positivi?
Qualche spiraglio c’è. Per esempio il tema dello svolgimento di attività di interesse generale come elemento distintivo. Credo che quello sia il parametro giusto per discernere chi ha a cuore il bene comune e chi si occupa d’altro, a prescindere dalla forma che ognuno deve essere libero di adottare. Per questo l’impresa sociale di per sé non la considero né buona, né cattiva. Però anche qui bisogna intenderci.
In che senso?
Io mi faccio una semplice domanda: cosa intendiamo per impatto sociale? Le faccio due semplici esempi. In passato ho avuto la necessità di affidare mia mamma a una casa di cura gestita da un istituto religioso: pagavo 600 euro al giorno. Bravissimi, mai avuto nulla di cui lamentarmi, ma chi se lo può permettere. Se misuriamo l’impatto sociale in base a quanti anziani sono ospitati abbiamo un risultato, ma se lo parametriamo in base al costo che i servizi hanno per l’utenza, il risultato cambia. Altro esempio: a Roma ci sono 5 associazioni che si occupano di accogliere i familiari di bambini malati di tumore che devono venire negli ospedali e vivono in condizioni terribili. Sono invece 22 gli enti che si occupano di clownterapia e lo fanno in modo straordinario. Ma io mi chiedo: per i bambini non sarebbe più impattante poter passare più tempo con a fianco i genitori, piuttosto che “divertirsi” qualche minuto in più con un clown? Io credo proprio di sì. Il punto è che la riforma non supera il primato dei finanziatori e dei gestori sui beneficiari di servizi e interventi, che è la vera malattia del cosiddetto non profit in tutto il mondo.
Tornando all’impresa sociale, né contrario, né favorevole, quindi…
A me, consumatore e cittadino, più che un’impresa sociale low profit interessa che sia low cost. Che possa o meno distribuire utile e in che misura, è decisamente in secondo piano.
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