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Conferenza Ebola: un Piano Marshall pieno di incognite
Oltre 5 miliardi di euro di impegni della Comunità internazionale parzialmente erogati non bastano ai paesi africani presenti a Bruxelles. “Contro Ebola ci vuole un Piano Marshall”
Da Bruxelles
Liberia, Sierra Leone e Liberia – i paesi africani più colpiti dalla crisi Ebola – hanno chiesto oggi alla Comunità internazionale di lanciare un Piano Marshall per aiutarli a sconfiggere definitivamente il virus e rilanciare le loro economie ormai in ginocchio.
“Ebola ha avuto un impatto devastante sui nostri sistemi economici”, ha ricordato la Presidente della Liberia, Ellen Sirleaf-Johnson, nel corso di una Conferenza internazionale che ha riunito oltre 600 delegazioni dell’UE, le Nazioni Unite, l’Unione Africana, le ong e i centri di ricerca scientifica, tutti riuniti a Bruxelles con un chiodo fisso: fare di più e meglio per arrivare il più velocemente possibile al “caso zero” e gettare le basi per un futuro migliore. Sul come, Sirleaf-Johnson ha le idee abbastanza chiare: questa nuova ambzione “impone delle strategie di rilancio” e “delle risorse molto significative”, insomma “un Piano Marshall” in grado di sostenere sul lungo termine i tre paesi africani.
In un’intervista rilasciata a Vita.it, il Presidente della Guinea, Alpha Condé, si è allineato alla sua omologa liberiana suonando lo stesso spartito: “la Comunità internazionale deve aumentare i fondi contro Ebola”, per poi ricordare che “gli impresi presi vanno rispettati”. Sui 4,9 miliardi di euro promessi dalla Comunità internazionale (saliti oggi a 5,1 miliardi) lo scorso anno, circa 2,4 miliardi sarebbero già stati erogati assicura una fonte dell’UE, sottolineando come la stessa Europa si è distinta dagli altri donatori per la “rapidità eccezionale” con la quale Bruxelles ha speso buona parte dei fondi annunciati (circa 600 milioni di euro su 1,2 miliardi di euro).
Per uscire da una logica unicamente fondata sulla richiesta e rassicurare i propri partner, i presidenti Sirleaf-Johnson, Condé e Koroma (della Sierra Leone) hanno annunciato la “presentazione di un piano regionale” in una riunione prevista in aprile a Washington con il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. Un modo anche per dimostrare ai donatori che l’assenza di cooperazione tra i tre paesi è un problema superato. “E’ un’iniziativa interessante”, ha ribattuto la Segretaria di Stato francese con delega alla cooperazione allo sviluppo, Annick Girardin, “ma va verificata sul terreno”.
Nel suo discorso di apertura, l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE, Federica Mogherini, ha sposato (in parte, e solo in parte) le richieste dei presidenti africani dichiarando che “Ebola è una sfida che va affrontata sul lungo termine”. Una sfida che passa per la necessità “di dimostrare la nostra efficienza nella gestione dei nostri aiuti allo sviluppo, di promuovere la good governance e di rafforzare la cooperazione regionale”. In questa battaglia, “l’UE è un partner insostituibile”.
Insostituibile sì, ma non sui fondi. A dirlo a chiare lettere è stato Louis Michel, il co-Presidente dell’Assemblea Parlamentare Paritaria UE-ACP. “I leader africani presenti a Bruxelles devono capire che l’UE non è un pozzo senza fondo. L’Europa sta attraversando una crisi economica grave, il che ci costringe a dover rispondere come non mai ai cittadini europei sugli impegni che prendiamo in questa crisi come nell’insieme delle azioni umanitarie e di sviluppo che svolgiamo in tutto il mondo. Finora l’UE ha deciso di erogare 1,2 miliardi di euro contro Ebola, non sono pochi”.
Oltre ai fondi supplementari, i presidenti africani hanno chiesto la cancellazione dei loro debiti. Alla vigilia della conferenza, il FMI aveva annunciato una cancellazione parziale del debito della Sierra Leone pari a 187 milioni di dollari. Ma la generosità delle istituzioni di Bretton Woods non convince proprio tutti (leggi qui l’analisi pubblicata pochi giorni fa dal Comitato per la cancellazione del debito nei Paesi del Sud).
Se a Bruxelles la battaglia tra paesi africani e donatori si è giocata principalmente sul terreno degli euro e dei dollari, c’è chi ha voluto ricordare che la lotta contro Ebola è ancora e soprattutto una corsa contro il tempo. E anche in questo caso, la sincronizzazione degli attori non è scontata. Due mesi fa, Alpha Condé pensava di domare il virus in meno di 60 giorni, mentre Hollande aveva menzionato il mese di luglio. Oggi Sirleaf-Johnson evoca aprile per la Liberia. Ma delle scommesse è meglio non fidarsi. Perché se è vero che le scene apocalittiche del 2014 sembrano alle spalle, i casi di contagio non si fermano. 99 quelli recensiti nei tre paesi durante la settimana del 22 febbraio, che peggiorano un bilancio già di per sé drammatico. Dall’inizio della crisi scoppiata esattamente un anno fa, l’epidemia ha colpito più di 23.900 persone, uccidendone oltre 9.700.
Queste cifre hanno il merito di costringere tutti a fare il proprio mea culpa. La Comunità internazionale per il ritardo eccessivo nel rispondere alla crisi e, a tratti, la confusione sul piano operazione; mentre impossibile è stata la possibilità data ai paesi colpiti di fronteggiare un’emergenza con sistemi sanitari messi al collasso dalle politiche di aggiustamento strutturale degli anni '80, dai conflitti e dalla corruzione. La costruzione dei centri di trattamento Ebola in Liberia riassumono bene i limiti evidenziati dalla "risposta alla crisi": il paese, ancora in fase di ricostruzione dopo dieci anni di guerra civile, non era dotato delle infrastrutture sanitarie adeguate per curare i malati e lanciare azioni preventive su scala nazionale. A raccogliere la sfida è stato MSF, un colosso umanitario a cui il mondo ha affidato fino a settembre 2014 le prime operazioni di emergenza. Intanto l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva dato i suoi primi di risveglio riconoscendo la gravità della crisi… ben quattro mesi dopo i primi casi recensiti nella regione. Se il riveglio è stato tardivo, non ha sopreso nessuno. Infatti, la chiusura del suo Dipartimento "Emergenze" causata dai tagli budgetari imposti all'organizzazione due anni fa ha avuto conseguenze negative sulla sua capacità di intervento umanitario. Risultato: in Liberia hanno "spadroneggiato" MSF, l'esercito americano (e i suoi 3mila soldati) e l'Organizzazione internazionale per le Migrazioni (OIM), con questi ultimi incaricati di costruire i centri di trattamento Ebola. Da settembre in poi, l'azione della Comunità internazionale e dei partner liberiani si è comunque fatta sentire. Ma la lotta contro Ebola è un discorso tutt'altro che chiuso.
Da qui la necessità di combattere ancora nel presente, ma pensando al futuro. Oggi l’emergenza umanitaria, domani lo sviluppo. Con una linea di demarcazione tra i due concetti talmente sottile da far scoppiare la testa. “E’ una partita molto complessa”, sostengono in coro il commissario europeo per gli Aiuti umanitari, il cipriota Christos Stylianides, e il coordinatore delle Nazioni Unite per la lotta contro Ebola, David Nabarro.
Per il Presidente sierraleonese, Ernesrt Bai Koroma, oggi e domani significa "rimettere in piedi subito i servizi sociali”, privilegiando la sanità e l’educazione. “Perché se c’è una cosa che Ebola ci ha insegnato, è che non possiamo più permetterci di trovarci impreparati di fronte a una crisi sanitaria di questo genere”. Ma ricostruire significa anche fare i conti con un PIL che nella regione è crollato del 12%. E un tessuto sociale dilaniato dall’epidemia. Chi lavora sul terreno sa quanto sia difficile sensibilizzare i cittadini. “La gente è stanca e c’è chi preferisce addittura negare l’esistenza di Ebola”, sostiene una fonte della delegazione guineana. “Ma non abbiamo scelta. Se vogliamo sconfiggere il virus, bisogna informare”. E ricostruire.
Copyright foto: Commissione europea
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