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Il call center anti-suicidi per i veterani dell’esercito
Dal 2001 sono morti più soldati americani per suicidio che per ferite sul campo. Con 22 mila telefonate al mese, il call center di Canandaigua è l’unico negli Stati Uniti ad offrire soccorso ai veterani sul punto di farla finita. Sul lavoro dei suoi operatori è stato girato un documentario, candidato all’Oscar
22 mila telefonate al mese, aperto 365 giorni all’anno, ventiquattr’ore su ventiquattro, per fermare, o quantomeno ridurre, il tasso impressionante di suicidi tra i veterani dell’esercito. Il call center di Canandaigua, una cittadina di circa 10 mila abitanti nello stato di New York, sembra la location perfetta per girare una serie tv al cardiopalma: tra le scrivanie si rincorrono telefonate frenetiche tra i diversi operatori, per offrire un soccorso tempestivo a chi è sul punto di farla finita, ma anche molti, lunghi silenzi per ascoltare chi si trova dall’altra parte del telefono, i veterani. Dal 2001 ad oggi, sono morti più soldati americani per suicidio, che per ferite sul campo di battaglia e, secondo i dati del governo americano, anche se solo l’1% della popolazione si arruola nell’esercito, i suicidi dei veterani rappresentano il 20% dei suicidi complessivi negli Stati Uniti, 1 morte ogni ottanta minuti, 22 suicidi al giorno.
Con i suoi 250 operatori, Canandaigua è l’unico call center nel Paese ad offrire questo tipo di servizio, dal 2007 da qui, sono passate oltre 1 milione di telefonate e nel 2013 il network televisivo HBO ha prodotto un documentario, diretto dalla regista Ellen Goosenberg Kent, sull’enorme, difficilissimo, lavoro quotidiano delle persone che lavorano qui. Candidato all’Oscar come miglior cortometraggio documentario e dato come favorito, Crisis Hotline, Veterans Press 1, non ha nulla da invidiare alla più adrenalitica delle serie TV americane, eppure è tutto vero.
Qui il 25% degli operatori è stato nell’esercito e tutti hanno una formazione in psicologia e salute mentale, altrimenti non sarebbe possibile gestire la pressione quotidiana, perché ogni volta che qualcuno alza risponde al telefono, si potrebbe trovare a gestire una situazione che potrebbe essere di vita o di morte.
Spesso chi chiama si trova già in una situazione di pericolo estremo, si è già ferito, ha già ingoiato pillole o ha una pistola puntata alla tempia dal nemico peggiore, sé stesso. In questi casi chi risponde alla chiamata deve stabilire una connessione immediata, cercare di prendere tempo, coordinando contemporaneamente i soccorsi con l’ambulanza, ma prima ancora con la polizia, che, secondo il protocollo, deve arrivare sul luogo prima dei medici, per garantire che la situazione sia sicura per i soccorsi. Tra le cause che portano gli ex militari a cercare il suicidio, depressione, difficoltà a riadattarsi alla vita normale e disturbi da stress post traumatico, come Kenneth, ex militare in Afghanistan che, nel documentario, racconta a Darlene, l’operatrice, di non riuscire a togliersi dalla mente l’immagine di corpi nell’acqua. “Quello che cerchiamo di fare, in questi casi, è ricordare tutte le ragioni che queste persone hanno per continuare a vivere.” Eppure non va sempre bene, nel documentario, Robert ,coordinatore delle emergenze racconta la rabbia, la tristezza e l'incertezza di non aver fatto abbastanza, davanti alla morte di qualcuno che non si riesce a salvare. Sentimenti che però devono essere elaborati velocemente, perché non c’è tempo da perdere: “Torniamo al lavoro il prima possibile,” spiega Robert, “ci sono sempre altri veterani con cui lavorare.”
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