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I grandi marchi tornano in Italia ma peggiorano i diritti dei lavoratori

Dopo la grande delocalizzazione, le grandi aziende dell’abbigliamento tornano lentamente a produrre in Italia. Per i lavoratori però le cose non sembrano migliorare. Un rapporto della campagna Abiti Puliti, sottolinea il rischio del peggioramento delle condizioni lavorative e salariali e la crescita del lavoro nero

di Ottavia Spaggiari

Dopo la grande delocalizzazione, le grandi aziende dell’abbigliamento tornano lentamente a produrre in Italia. Per i lavoratori però le cose non sembrano migliorare. Un rapporto della campagna Abiti Puliti, sottolinea il rischio del peggioramento delle condizioni lavorative e salariali e la crescita del lavoro nero.

I grandi marchi dell’abbigliamento tornano lentamente a produrre in Italia ma, per i lavoratori, le cose non cambiano di molto. Se la delocalizzazione delle industrie del tessile nei paesi in via di sviluppo, aveva lasciato senza lavoro migliaia di persone in Italia, sembra che il ritorno della produzione nel nostro paese , non sia necessariamente una buona notizia per i lavoratori del settore.

Ad affermarlo l’ultimo rapporto della di Abiti Puliti, la sezione italiana della campagna internazionale Clean Clothes Campaign, che da anni si batte per i diritti dei lavoratori dell’abbigliamento e per una filiera più equa e sostenibile.

Lo studio condotto dalla campagna, rivela che, nel nostro paese, diversi grandi marchi, tra cui Louis Vuitton, Armani, Prada e Dior stanno ri-acquistando fabbriche, che erano state chiuse, in molti casi perché non erano sopravvissute alla competizione del costo del lavoro, nei paesi dell’Ex-Unione Sovietica e in Turchia. Secondo Abiti Puliti, però il rischio è che anche da noi si scateni una corsa al ribasso, fatta di condizioni lavorative e salariali misere, per tenere testa ai costi irrisori del lavoro applicati in altri paesi.

La ricerca di Abiti Puliti, rivela che, in diverse aziende, i lavoratori del settore possono arrivare a percepire un salario mensile tocca anche i 700 euro al mese. In crescita, secondo il rapporto, anche il lavoro nero, secondo lo studio infatti alcune imprese appaltavano parte della produzione ad aziende terze, che costringono la forza lavoro a orari, condizioni contrattuali e salariali impossibili.

Il rapporto sottolinea inoltre l’importanza di adottare un salario minimo europeo, utilizzando come esempi le stime calcolate dall’Asia Floor Wage Alliance, l’organizzazione sindacale di monitoraggio dei salari in Asia e dalla Clean Clothes Campaign, per i paesi dell’Ex Unione Sovietica.


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