È passata una settimana, dall'imponente manifestazione che ha visto riunirsi e sfilare, in maniera del tutto spontanea per le vie di Parigi, quasi tre milioni di persone. Il sociologo Michel Maffesoli rilegge quell'evento cogliendo in esso i segni di una "spontanea elaborazione del lutto" che le élites non comprendono. "La nostra società sta cambiando, la moltitudine istintivamente lo capisce ed è pronta ad aprirsi - al di là di ogni strumentalizzazione - a nuove forme del vivere comune".
Nel suo libro sulle Forme elementari della vita religiosa (1912), portando l'attenzione sulla costitutiva ambiguità del sacro, Emile Durkheim parla di alcuni riti, chiamandoli, con termine preso dalla liturgia dell'antica Roma, "riti piaculari". Il lutto è uno di questi riti. Partendo dalle parole di Durkheim, il francese Michel Maffesoli, che insegna sociologia alla Sorbona, occupando proprio la cattedra che fu di Durkheim, legge gli eventi che domenica 11 gennaio hanno portato migliaia di persone a sfilare a Parigi e non solo.
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Durkheim, attraverso un’espressione per certi versi oscura, riti piaculari (rites piaculaires) ricordava il bisogno che ogni società ha di piangere insieme. Questo per sostenere il corpo sociale. Le emozioni condivise servono a cementare regolarmente il sentimento di appartenenza.
I pretesti sono vari: competizioni sportive, catastrofi naturali, fatti di sangue (Mondiali di calcio, tsunami, morte accidentale di una principessa inglese…). Il risultato però non cambia: ricordare all’animale politico che è proprio della sua essenza “essere con”. Anche se la vita sociale – ma ci torneremo – attraversa una profonda mutazione.
Ecco quanto bisogna tenere bene a mente per apprezzare con lucidità le immense, spontanee reazioni popolari al delirio omicida (massacro alla redazione di Charlie Hebdo, assassinio a Montrouge e al negozio kosher della porte de Vincennes, eliminazione dei terroristi) che hanno insanguinato la Francia negli ultimi giorni.
Per essere lucidi dobbiamo, da un lato, trascurare l’ignorante leggerezza della maggior parte degli osservatori sociali. Questi ultimi, infatti, si accontentano di vaghi incantesimi, di parole pronunciate in nome di una verità astratta, parole magiche completamente separate e lontane dalla vita vissuta. D’altra parte, bisogna accettare di riconoscere che pensare è difficile. Ecco perché la maggior parte di quegli osservatori preferisce giudicare. Arrvano da qui i discorsi moralisti da cui siamo sommersi: «Words, words,words…».
Riti piaculari, causa e effetto delle comunioni fondatrici, ma anche elaborazione del lutto che ricorda, in tempi di angoscia nei quali dominano «timore e tremore», che la decadenza di una civilizzazione è sempre indice di una Rinascita. Niente è finito, tutto è in metamorfosi.
La doppia intolleranza: fanatismo ateo e devoto
Questa elaborazione del lutto, ovviamente inconscia, si getta alle spalle alcune figure caduche di un mondo oramai troppo vecchio e ribadisce – come giustamente affermava Rousseau – che il «fanatismo ateo e fanatismo devoto si incontrano nella loro comune intolleranza» (Confessioni, Pare II, libro 11).
Ci sarà spazio per rimpiangere qualche figura di Saint-Germain de Près. Si può anche assistere ad un tentativo di uso politico dei fatti. Tutto questo è nell'ordine delle cose.
Ma l’essenziale, in questa grande confusione emotiva, è il presentimento di una mutazione di fondo, di una metamorfosi sociale che, ogni tre o quattro secoli, scuote in profondità i fondamenti della convivenza.
L’emozione, non lo ripeteremo mai abbastanza, è molto più di una caratteristica psicologica: è un ambiente nel quale ognuno si ritrova immerso. Ciò contraddice i ciarlatani ufficiali che parlano delle nostre come di presunte società individualistiche.
In effetti, senza che ciò avvenga a livello conscio meno ancora sia verbalizzato, nei loro aspetti spontanei, al di la o al di qua dunque dei loro usi politici o moralizzanti, le effervescenze emotive traducono il fatto che il «consenso» sociale sta prendendo un'altra forma. Nel suo significato più stretto: « con-senso», condivisione di sentimenti, ritorno di passioni comuni e di fantasmi, fantasie e fantasmagorie collettive. Questo è proprio ciò che delegittima tanto il fanatismo ateo, quanto il fanatismo devoto.
Non si era detto che la modernità aveva avuto inzio con la fine degli angeli e dei demoni? Eppure eccoli di nuovo, nel bene e nel male, pronti a tornare nella nostra nascente postmodernità.
Assistiamo al ritorno del religioso o, meglio, al ritorno della religiosità diffusa. Certamente, possiamo continuare a agirarci come trante caprette, belando: laicità, laicità, laicità, laicità!
Esclamazione che altro non è se non puro e semplice «laicismo», che corrispondeal contrario della laicità. In qualche modo, un’antifrasi. Ricordiamoci infatti che, nel Medioevo, i «lais» (fratelli laici, convertiti, nei monasteri) propriamente non erano preti. Ma è lo spirito del prete, ovvero quello del dogmatismo, che prevale nell’intolleranza «laicista» dei benpensanti!
Di conseguenza, invece di intonare pie giaculatorie di laicismo al tempo stesso idiote e superate, negando ciò che ci sta davanti, è necessario integrare, ritualizzare, in una parola «omeopatizzare» questo nuovo spirito del tempo che ha fondamento religioso. Un altro ciclo comincia, al di là dello spirito da sacrestia dei «fanatismi atei», ridona attestato di nobiltà al qualitativo. Comincia un ciclo attento al prezzo delle cose senza prezzo, al simboli, un ciclo improntato a ciò che Régis Debray chiama «sacral».
L'Altro non è lo stesso
Accade lo stesso con con questi riti piaculari, queste diverse elaborazioni del lutto ricordano che non possiamo divagare all'infinito sulla Repubblica una e indivisibile. O sui sempiterni valori repubblicani. La «Res publica» sta assumendo una nova forma: quella del mosaico che assicura la coesione di diverse comunità. Non più riduzione dell’altro allo stesso, ma accettazione dell’altro in quanto tale come fonte di innegabile arricchimento.
Le lamentele sul «comunitarismo» e su cose della stessa pasta, non sono adatte a comprendere l’emergere di un ideale comunitario che, di fatto, costituisce la vita delle città postmoderne.
L’osservazione romanzata e sfumata di Houellebecq è lì a provarlo. Le passione e le emozioni condivise ridiventano il fondamento di ogni vivere comune. Abbiamo bisogno di saper mettere all’opera una «ragione sensibile» che, al di là di ogni stigmatizzazione, sia capace di accompagnare questo processo testimoniando di un’innegabile vitalità esistenziale. Consiste in questo l’elaborazione del lutto attualmente in corso.
Ciò che le élites non capiscono
Ecco ciò che, segretamente, anima le masse emotivamente riunite in Francia come fuori dalla Francia. Sono masse costituite da un mosaico di tribù, comunità o altri gruppi animati dal medesimo sentimento di appartenenza. Gruppi che, nella diversità, mostrano come la pluralità delle culture possa trovare il proprio accomodamento, ricordando che il politeismo dei valori è il dato più certo della postmodernità. Unicamente constatando e accettando questa diversità potremo disinnescare i diversi fanatismi e combatterne la sanguinaria perversione. Il relativismo sa per esperienza e antica memoria che, come ricordava Orazio, «multa renascentur quae jam cecidere…», ossia che molte cose che oggi sono sull’altare cadranno.
La saggezza popolare capisce benissimo che è un’altra epoca sta sorgendo ed è questo che spontaneamente, a radunarsi per invocarla.
Nel frattempo, accecate dal totalitarismo diffuso, che il fantasma dell’Uno – che Auguste Comte a ragion vedita chiamava la «reductio ad unum» – le élites nel loro complesso non sembrano comprendere molto dell’anima profonda che muove le nostre società.
È una deplorevole battaglia di retroguardia, quella dei benpensanti che tentano di «servirsi» dele moltitudini. Ma questa manovra non è presa sul serio da nessuno. Perché, non dimentichiamolo, il vero riso è quello che si prende gioco di coloro che deplorano gli effetti di cause che si trovano a difendere. Si tratta, in questo caso, della Repubblica Una, della laicità dogmatica, del razionalismo sterile.
Michel Maffesoli è professore di Sociologia all'Université Paris Descartes -Sorbonne e direttore del Centre d'Études sur l'Actuel et le Quotidien. Tra i suoi lavori tradotti segnaliamo: L’Istante eterno. Ritorno del tragico nel postmoderno, Luca Sossella editore, 2003; Il Tempo delle Tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, 2004; Apocalisse. Rivelazioni sulla socialità postmoderna,
Ipermedium, 2009.
traduzione di marco dotti (@oilforbook)
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