Volontariato
Terzo settore e diritti dei lavoratori: sembra un nesso scontato ma…
Il fatto che i rapporti tra enti pubblici e terzo settore non fossero sempre limpidi, qualcuno lo supponeva anche prima che si venisse a conoscenza dei fatti legati all’inchiesta Mafia Capitale. Al di là delle considerazioni sulla trasparenza chiariamo una cosa: se un ente pubblico non eroga i finanziamenti previsti per la gestione di un servizio ad un ente no profit, quest’ultimo ha le mani legate
Primo caso. Napoli: decine di operatori sociali, che già non percepivano lo stipendio da più di un anno, restano senza lavoro. Il Comune non versa i fondi per il servizio di assistenza per cui lavorano, e l’ente gestore interrompe il servizio e i rapporti di lavoro. Quasi duemila tra anziani e disabili restano senza assistenza. Analoghi casi in città, in provincia, in regione, e sicuramente in altre città italiane.
Secondo caso, diverso ma con le stesse vittime: operatori sociali napoletani aspettano da anni stipendi e contributi previdenziali risalenti a molti anni prima.
Due casi, un paradosso
Il Comune (e analogamente gli enti controllori e finanziatori a monte) non solo non monitora il rispetto di requisiti che pure richiede all’ente gestore in fase progettuale, ma pensa bene di premiare l’ente “no profit” con un nuovo affidamento ancora più grande. Per la serie: “bravi, andate avanti così!”
D’altronde che i rapporti tra enti pubblici e terzo settore non fossero sempre limpidi qualcuno lo supponeva anche prima che si venisse a conoscenza dei fatti di Roma legati all’inchiesta Mafia Capitale.
Al di là delle dovute considerazioni sul tema della trasparenza e di come vengano affidati progetti e servizi, già sviluppate in un mio precedente intervento chiariamoci subito su una cosa. Se un ente pubblico non eroga i finanziamenti previsti per la gestione di un servizio ad un ente no profit, quest’ultimo ha le mani legate.
Chi paga il conto per chi non viene pagato?
Il problema è che, come sempre, le conseguenze le pagano i destinatari dei servizi ed i lavoratori.
D’altronde l’operatore sociale è visto da alcuni come un volontario che (a volte) viene persino pagato, come fosse una concessione o un abuso. Ho sentito spesso dirmi “perché non ti trovi un lavoro serio”, anche se quel lavoro mi impegnava per (almeno) dieci ore al giorno e (almeno) sei giorni a settimana.
Il paradosso è dunque che proprio nel settore della solidarietà, del contrasto alla povertà, della promozione dei diritti, i lavoratori, che si occupano degli “ultimi”, sono spesso condannati a fare parte, nel migliore dei casi, dei “penultimi”.
Con buona pace degli statuti è relativamente importante, resta semplicemente una situazione non più sostenibile.
Non credo che la soluzione sia quella proposta da alcuni, ossia di affidare i servizi ad enti con maggiore solidità economica, ma che magari non hanno le stesse competenze (o la stessa “passione”). A Napoli diciamo “cornuti e mazziati”, ossia non solo mi danneggi ma mi bastoni pure. Inoltre si finirebbe per rafforzare ulteriormente le posizioni dominanti che attualmente già esistono.
Semmai vanno valutate molto attentamente le cause per cui un ente no profit non riesce a riconoscere ai suoi lavoratori i diritti che spettano loro.
Nel primo caso illustrato sopra ci sono motivazioni esterne, responsabilità dell’ente pubblico, e non si può penalizzare ulteriormente l’organizzazione affidataria del servizio (sempre con la premessa che andrebbe valutata la trasparenza dell’affidamento).
Nel secondo caso no, e l’ente pubblico ha una doppia responsabilità per quello che accade, tanto più grave quando chiude gli occhi e se ne lava le mani. Quando l’ente affidatario non tutela “dolosamente” i propri lavoratori va sanzionato togliendogli l’affidamento, salvaguardando nel contempo la situazione lavorativa dei suoi collaboratori.
Quale soluzione a questo paradosso del terzo settore?
Personalmente ho sempre pensato che la privatizzazione (perché tale è) dei servizi sociali sia un errore. Non sono convinto che costituisca un risparmio per la pubblica amministrazione (anzi), non ha migliorato la qualità media dei servizi (anzi), ed ha dato vita a volte a fenomeni di corruzione e clientelismo, oltre a cementare un legame malsano tra parte del terzo settore e la politica.
Credo che almeno i servizi essenziali debbano tornare ai Comuni, dando così anche una prospettiva più stabile ai lavoratori del settore.
Se questo non lo si vuole fare, allora possiamo avanzare una prima ipotesi: azzeriamo tutto temporaneamente. I Comuni riassumano la gestione dei servizi, assumendo con forme contrattuali a tempo determinato gli operatori sociali, saldino i debiti arretrati con associazioni e cooperative, e si riparta daccapo in maniera davvero sostenibile. Cioè con una condizione: che gli operatori sociali dei servizi esternalizzati dai Comuni siano equiparati nei diritti ai dipendenti pubblici, e gli enti locali garantiscano il loro pagamento regolare nei tempi e nelle entità.
Una prima ipotesi, abbiamo detto. Ne esistono altre? Perché non cominciamo davvero a discuterne?
Vogliamo davvero che, per questo ruolo, il futuro sia sempre più nero?
Marco Ehlardo (Napoli, 4 febbraio 1969) ha lavorato per oltre dieci anni a Napoli in servizi per migranti, coordinando un programma di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo. Dal 2011 ricopre il ruolo di Referente per la Campania di ActionAid Italia. Di recente è uscito per la Edizioni Spartaco il suo primo libro “Terzo settore in fondo: cronistoria semiseria di un operatore sociale precario
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