Economia
Accountability: la cultura che può salvare il Terzo Settore (sempre che lo voglia)
Il problema principale resta quello della trasparenza. Anzi, dell’accountability, come dicono gli inglesi, termine che unisce il concetto di trasparenza a quello di responsabilità e che non ha traduzione letterale in italiano.Se vogliamo che il Terzo Settore superi questo momento di crisi drammatica della propria immagine, l’unica strada è questa.
di Redazione
“Ah sei una vittima di tortura? Vuoi venire a parlare della tua storia in un convegno che stiamo organizzando?”
Bandi infiniti
A parlare un operatore/dirigente di un’associazione che incontra un richiedente asilo. Avrebbe dovuto essere sottoposto lui a tortura dopo questa frase, o almeno, in un Paese serio, essere radiato a vita dal settore.
“A questo bando possono partecipare le organizzazioni il cui nome inizia per X e finisce per YZ”.
C’è mancato poco, a volte, che certi bandi pubblici per la gestione di servizi sociali contenessero perfino frasi del genere (il che sarebbe stato paradossalmente più onesto).
Ovviamente è un puro caso che ogni volta il bando sia vinto dall’organizzazione XYZ.
“Il progetto, pena l’esclusione, deve riportare i seguenti elementi: obiettivi generali, obiettivi specifici, numero di persone a cui saranno risolti tutti i problemi della loro vita, indicatori di impatto, indicatori di efficacia, replicabilità e sostenibilità del progetto, elementi di innovazione, capacità economica del capofila, ruolo del progetto nella transizione al socialismo”.
Di bandi del genere ne ho visti un’infinità; di testi che riportavano entusiasticamente come il progetto avrebbe cambiato il mondo in base ai parametri richiesti, pure; di amministrazioni che, a fine progetto, monitorassero che almeno uno di questi obiettivi, magari per sbaglio, fosse stato raggiunto, poche o nessuna. Chiedere quante organizzazioni lo facessero lo stesso, autonomamente, non è una domanda seria.
Preoccupazioni comuni
Se oggi l’opinione pubblica parla (anche) del Terzo Settore in termini preoccupanti sarà forse colpa (o merito, questioni di punti di vista) dell’inchiesta Mafia Capitale, ma non nascondiamoci solo dietro questo. L’opinione pubblica italiana non è molto incline alle mezze misure, è vero: si innamora di persone, organizzazioni, temi, e poi, alla prima cosa che non va, raggruppa tutto insieme e fa un unico falò.
Ma se siamo arrivati a questo punto di motivi ce ne sono.
Chi ha accettato che una parte del Terzo Settore divenisse cinghia di trasmissione della politica, in cambio di risorse e servizi da gestire, ha contribuito a creare questo clima.
Chi ha accettato, ed anzi spesso accolto entusiasticamente, la brutale esternalizzazione dei servizi sociali (anzi una volta per tutte chiamiamola col suo vero nome, ossia privatizzazione) intravedendone i vantaggi che ne potevano derivare per la propria organizzazione, è stato complice quanto e più della politica.
Chi ha chiuso un occhio sulle assegnazioni dirette di servizi, o sui bandi scritti ad hoc, nella speranza che “oggi a te, domani a me” fa parte a pieno titolo di questo sistema.
Chi ha scelto i propri operatori in base ad amicizie, parentele, o per segnalazione di questo o quel politico, crescendo geni come quello ad inizio di questo articolo, è stato quantomeno irresponsabile.
Tutti siamo stati in questi anni testimoni, ed in parte responsabili, di questa deriva.
“Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi”, dice il replicante Roy Batty in Blade Runner. Ma che soprattutto, aggiungerei, non dovreste più accettare.
Il problema principale resta quello della trasparenza. Anzi, dell’accountability, come dicono gli inglesi, termine che unisce il concetto di trasparenza a quello di responsabilità e che non ha traduzione letterale in italiano (e se la lingua è lo specchio della cultura di un Paese questo spiega molto del nostro).
Se vogliamo che il Terzo Settore superi questo momento di crisi drammatica della propria immagine, l’unica strada è questa.
Pubblico, privato…controllato?
Perché se il Terzo Settore è un settore privato (è sempre bene ricordarlo e ribadirlo), è un privato atipico, soprattutto per la tipologia dei propri utenti: i poveri, gli esclusi, i perseguitati, i discriminati.
Se un’azienda profit fa prodotti scadenti, i suoi clienti possono scegliere di non comprare più quei prodotti, e se lo fanno ne accettano liberamente conseguenze.
Se un’organizzazione no profit offre servizi scadenti, o inefficaci, o peggio fa solo finta di occuparsene, i suoi “clienti” non hanno scelta, non possono cercare altrove, e ne pagano senza colpe le conseguenze.
Per questo è di gran lunga più grave. Per questo l’opinione pubblica non ti perdona. E (finalmente) fa bene.
Si faccia da parte chi non è stato e non è in grado di garantire efficacia e reale impatto dei propri progetti e servizi, si apra a una sana e vera concorrenza (e chiederla per il Terzo Settore non è essere liberisti, è esattamente il contrario) e, quando tutto questo non si rileva possibile, si torni al pubblico. Col Terzo Settore che riguadagni il suo ruolo di controllore esterno della politica. Ne guadagneremo tutti; ma soprattutto ne guadagnerebbero le persone che diciamo di voler aiutare.
Marco Ehlardo (Napoli, 4 febbraio 1969) ha lavorato per oltre dieci anni a Napoli in servizi per migranti, coordinando un programma di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo. Dal 2011 ricopre il ruolo di Referente per la Campania di ActionAid Italia. Di recente è uscito per la Edizioni Spartaco il suo primo libro Terzo settore in fondo: cronistoria semiseria di un operatore sociale precario (►qui la nostra recensione)
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