Economia

Siamo cooperatori ma il welfare non ci basta più

Stefano Granata presidente del Consorzio CGM, maggiore network di cooperative sociale in Italia, lancia la sfida nella convention che si apre oggi a Roma: «Non possiamo più limitarci alla gestione dei servizi sociali per conto del pubblico». Il futuro? «Nuovi mercati e alleanze col profit».

di Stefano Arduini

43 mila lavoratori (il 72% con contratti a tempo indeterminato), 1 milione di persone raggiunte dai servizi e 1.3 miliardi di euro di fatturato aggregato nel 2013. Questi in sintesi i numeri del Consorzio Gino Mattarelli, il maggiore network di cooperative sociali italiano cui aderiscono poco meno di mille realtà. Una galassia che si ritrova oggi a Roma a cui il presidente Stefano Granata sta cambiando faccia: meno welfare tradizionale più innovazione sociale. 
In questa due giorni Granata espliciterà il suo programma per i prossimi anni. Un percorso alla fine del quale Cgm sarà qualcosa di molto diverso dall’attuale. Come il presidente anticipa in questo dialogo con Vita.
 

Granata insieme alla cooperativa Adelante Dolmen, Spazio Aperto Servizi e Consorzio SIR della rete CGM


Cosa funziona e cosa non funziona oggi in Cgm?
Nella gestione dei servizi sociali pubblici siamo una realtà consolidata. Il fatturato tiene. A un primo sguardo tutto procede bene. Ma questo oltre ad essere una solida base è anche un elemento di debolezza. Perché noi sappiamo che domani non potrà più essere così. Da qui non si scappa.

Quale grado di consapevolezza c’è all’interno del gruppo su questo punto?
C’è, ma a macchia di leopardo. Chi fa fusioni sui mercati, chi fa alleanze anche con altri soggetti dimostra di esserne consapevole; gli altri, quelli che non si pongono questi problemi, che restano piccoli, rivelano invece di non rendersene conto. La vera rivoluzione che io sto cercando di portare dentro Cgm è quella di uscire dall’idea del welfare in termini classici e di portare le produzioni del nostro mondo fuori dai confini tradizionali. Il modello economico dell’impresa sociale modernamente intesa deve atterrare su tutte le sfere che interessano i cittadini. Dobbiamo porci l’obiettivo di indicare un modello possibile sui temi di sviluppo del Paese. Penso all’abitare, alla salute, all’istruzione, al turismo. Questa per noi è la sfida del futuro, ma è anche un ritorno alle origini: non nasciamo per erogare servizi, la cooperazione sociale nasce per costruire percorsi di benessere con criteri inclusivi in una comunità allargata.

Sta dicendo che negli ultimi anni vi siete un po’ chiusi in un recinto?
Abbiamo lavorato molto sull’inclusione, e lo abbiamo fatto bene: senza di noi centinaia di persone sarebbero state marginalizzate dalla società. Oggi però sono migliaia le persone che esprimono bisogni primari: o siamo in grado di raggiungerle o il nostro lavoro diventerà irrilevante. L’housing per esempio: se continuiamo a fare il condominio solidale che coinvolge 10 famiglie va bene per gli story tellers, ma non per una città che deve rispondere a una domanda da 10mila alloggi. Per questo dobbiamo creare alleanze con le cooperative di costruttori. E lo stesso vale anche per l’energia, per la salute.

Cooperative sociali old style e nuove imprese sociali. Quali le differenze?
Le imprese sociali si possono definire come ibridi organizzativi, per riprendere una definizione di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai. In altre parole sono forme giuridiche e societarie aperte anche ad altri soggetti, dove un singolo cittadino, imprenditore o anche un ente locale può entrare nella governance e nel rischio imprenditoriale. Gli ibridi, naturalmente mi riferisco alla nostra rete che oggi ne conta oltre 70, sono sempre generati da cooperative sociali, che ne detengono le quote di maggioranza all’interno però di un progetto industriale di impatto sociale.

Lei ha messo in conto di perdersi qualcuno in questo processo?
Sì, naturalmente: dobbiamo portarci…

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Le foto sono di Antonio Mola
 


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