Cultura

Paradiso e inferno del giocatore

Presentato sabato scorso in prima nazionale al Teatro Lirico sperimentale di Spoleto, "Il giocatore" è parte di un dittico scritto e diretto da Marco Martinelli del Teatro delle Albe. Un lavoro che si e ci interroga sulla "sfinge del gioco" e, senza pregiudizi, con una tensione estetica ed etica ammirevoli finalmente apre nuovi scenari di riflessione sulla dimensione umana, tragicamente umana e quindi perennemente in bilico tra abiezione e bellezza, fra tragedia e libertà del "giocatore"

di Marco Dotti

Presentato sabato scorso in prima nazionale al Teatro Lirico sperimentale di Spoleto, Il giocatore è parte di un dittico scritto e diretto da Marco Martinelli del Teatro delle Albe. Un lavoro che, unitamente al suo "doppio" La canzone dei luoghi comuni, interpretata e "giocata" da Ermanna Montanari con un coro di gioiose voci bianche, si e ci interroga sulla "sfinge del gioco" e, senza pregiudizi, con una tensione estetica ed etica ammirevoli finalmente apre nuovi scenari di riflessione sulla dimensione umana, tragicamente umana e quindi perennemente in bilico tra abiezione e bellezza, fra tragedia e libertà del "giocatore".

Quale abisso?

Abisso chiama abisso, sta scritto nel Salmo 42. «L'abisso ha sempre fame», ci dice invece – pervertendo, ma non contraddicendo il salmo –  il giocatore del Teatro delle Albe.  Al centro della vita di un contadino c'è la terra e al cuore dei suoi strumenti c'è un trattore. Ma il contadino si gioca terra e trattore e della terra che arava e nutriva, resta solo il negativo della fossa.

La terra che arava e nutriva, finisce per rivelarsi una voragine di vertigine e di senso: quella in cui finisce la sua vita, finendo nell'abisso del debito, della menzogna, del "gioco". Ma la terra è anche dura, crudele. Non tanto per la fatica, ma per le voci che la abitano: ci sono le voci di quelli di città, le voci dei signorini, le voci giudicanti, i giudizi insomma e c'è l'odore che si attacca ai vestiti e ai soldi e non va via, nemmeno dopo tre docce, nemmeno sotto uno strato di profumo, nemmeno quando un contadino ha più soldi di quelli che i soldi li fanno e li spendono in città. Il paradosso è tremendo, perché la macchina – la slot, che mai appare se non come fantasma e come specchio in scena – al contrario non giudica. I soldi che divora, per lei, sono tutti uguali. Il denaro che inghiotte è democratico, non puzza nemmeno. Ma uccide. 

Da quale abisso, allora,  parla questo giocatore contadino – qui interpretato dal bravo Alessandro Argnani – che si è giocato dignità, fede e trattore ai cavalli e alle slot? Di che abisso ci parla la sua storia, umile, provinciale, forse infima ma terribilmente concreta? Lo spettatore è trascinato sulla scena, come su un piano di realtà. Accanto al giocatore due cantanti intonano le loro canzoni incomprensibili al giocatore e a chi lo guarda e, guardandolo, lo vorrebbe già giudicato. Ma è il piano della scena – che nella Canzone dei luoghi comuni sarà doppiato e capovolto – a impedire il giudizio. Dinanzi alle storie concrete, come diceva un vecchio proverbio russo, "il fratello non giudichi il fratello". Ma chi è fratello, qui? L'abisso? 

E il gioco non è forse sembre stato in relazione enigmatica, persino tagliente con questo abisso? Il "sogno" di ogni giocatore d'azzardo non coincide forse con questo taglio (taglio col passato, col legame, con le amicizie, con gli affetti) e con la possibilità di mutare repentinamente il negativo in positivo o – disposizione che lo rende strutturalmente ambiguo – viceversa?  

Quali libertà?

Friedrich Schiller, le cui parole, in tempi meno grigi per la nostra filosofia, stavano alla base di gran parte della riflessione estetica sul gioco, sul finire del XVIII secolo scriveva: «con la bellezza l’uomo deve soltanto giocare e deve giocare unicamente con la bellezza». La bellezza per Schiller è cosa seria. Anzi: la bellezza è in sé cosa seria, proprio per questo egli la consegna alla sofferta levità del gioco. Nel gioco c'è un tratto di rito, nel gioco c'è qualcosa che lambisce il sacro e per ciò stesso tocca la vita. Nel gioco è il nodo uomo a dirimersi o accartocciarsi su di sé, a liberarsi o comprimersi ma in un gioco di specchi (gli specchi hanno parte importante nell'allestimento del Giocatore/Canzone dei luoghi comuni del Teatro delle Albe) dove ogni cosa che si chiama libertà è rovesciata e "giocata" nel suo contrario.

Spingendosi ancora più in là nella sua riflessione, nella quindicesima delle sue Lettere sull'educazione estetica dell'uomo Schiller si lascia andare a un'affermazione al tempo stesso splendida ed enigmatica: «per dirla tutta in una sola volta, l’uomo gioca soltanto se è uomo nel pieno significato della parola ed è completamente uomo solo se gioca».

Non c'è da arrovellarsi molto attorno all'indicazione di questa formula se non per dire che è lì, in questo “essere completamente uomo nel gioco” e in questo “giocare completamente umano” che si racchiude la formula per andare oltre quelle forme alienate di relazione che chiamiamo “libertà” (al plurale), “diritti”.

Per Schiller l'uomo è mosso da Grundtriebe o impulsi fondamentali. Sono queste le forze che realizzano una doppia legge: la legge della realtà e la legge della forma. Se l’impulso formale (Formtrieb) nasce dalla natura razionale dell’uomo e mira alla sottomissione di ciò che gli è esterno e reale alla sua razionalità, l’impulso sensibile (sinnlicher Trieb) ha origine dalla natura sensibile dell’uomo.

Dove uno dei due impulsi prevalga, non si ha libertà, ma alienazione. Schiller però – e qui veniamo al gioco – nomina un terzo impulso, Spieltrieb o impulso al gioco, ed è questo impulso che rende l'uomo uomo, ossia lo rende libero. L’impulso al gioco, infatti,«sopprime il tempo nel tempo, unificando il divenire con l’assoluto, il mutamento con l’identità». Questo nutrimento appare nel gioco liberato dei bambini nella Canzone dei luoghi comuni. Dove la nozione di "luogo" è la chiave per quella politica dell'ascolto – chi ascoltava il giocatore? solo voci attorno a lui, solo giudizi, solo parole, solo parole su parole – che lega una comunità nella reciprocità dei destini. I ragazzetti gioiosi appaiono come tanti piccoli insorti, ribelli del gioco, ribelli al giogo dello pseudo-gioco. Capaci di sorridere con grazia alla bellezza e portare, sulle loro spalle fragili, il fragile peso della bellezza.

Quale bellezza?

Veniamo così a un altro nodo toccato dal lavoro del Teatro delle Albe, presentato sabato 12 settembre in prima nazionale al Teatro Lirico di Spoleto: la bellezza. Domandiamoci: a quale perversione stiamo assistendo, oggi, in Italia, se nel gioco anziché questo accesso alla libertà e alla bellezza rinveniamo solo una forma di nuova e forse più radicale alienazione? L'impulso di cui parlava Schiller è stato incatenato e contribuisce così a una brutalissima opera di disumanizzazione del mondo.

La bellezza salverà il mondo è una frase che ricordiamo tutti. Ma a pronunciarla non è Dostoevskij, o meglio, a pronunciarla per lui è il principe Miskin, l'idiota al centro dell'omonimo romanzo. Un bambino e un idiota candido possono portare il peso di quella bellezza. Un giocatore no. Un giocatore è un idiota solo nel senso etimologico del termine – idiotes, in greco sono gli uomini privati, privati di legami, quindi senza luoghi comuni. I giocatori postmoderni, quindi, sono abitatori di spazi non vissuti se luogo, al contrario, è uno spazio di transito, uno spazio di vita. I giocatori postmoderni, contemporanei della nostra catastrofe, sono uomini che sciolgono i legami, legandosi alla macchina, legandosi al nulla, legandosi al canto delle sirene – non all'albero saldo di una nave. 

Ma la bellezza è strutturalmente ambigua e, se privata di mondo, se in mano a "uomini senza mondo", sa liberare l'infausta potenza del negativo.

La bellezza – leggiamo sempre in Dostoevsikij, stavolta nei Karamazov – è anche «cosa tremenda e orribile. Non riesco a sopportare che un uomo dal cuore nobile e dall'ingegno elevato cominci con l'ideale della Madonna per finire con quello di Sodoma. Ma la cosa più terribile è che, portando nel suo cuore l'ideale di Sodoma, non rifiuti nemmeno quello della Madonna… Il cuore trova bellezza perfino nella vergogna, nell'ideale di Sodoma che è quello della maggior parte degli uomini».

Nelle parole del principe Miskin – «Mir spasët krasotà» – ciò che viene solitamente esaltato è la potenza salvifica della bellezza nei confronti del mondo. Ma la costruzione della frase russa ci ricorda che esiste un'altra direzione in cui declinare il rapporto: è il mondo a doversi far carico di salvare la bellezza.

Il giocatore del Teatro delle Albe è questo uomo senza mondo che anela a una bellezza senza legami – i simboli sacri scimmiottati sulle slot machines, faraoni, piramidi persino croci. Non sa ascoltare, perché non è stato mai ascoltato.

Ma la bellezza senza ascolto è mortale, perversa, come la Sodoma in cui si perverte ogni ideale di Grazia. I bambini della Canzone dei luoghi comune sono invece creature che stanno abitanto il mondo. Un mondo a cui, senza attenderla, sanno portare da sé la loro inesausta, indocile bellezza.

@oilforbook

Scheda de "Il giocatore" del Teatro delle Albe

testo e regia: Marco Martinelli
musica: Cristian Carrara
direttore Flavio Emilio Scogna
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
Opere commissionate dal Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto “A. Belli”
prime esecuzioni assolute
edizioni Casa Musicale Sonzogno
produzione Teatro Lirico Sperimentale A. Belli di Spoleto
in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro

in scena Alessandro Argnani, Cantanti del Teatro Lirico Sperimentale Chiara Margarito (soprano), Chiara Tirotta (mezzosoprano), Edoardo Milletti (tenore), Marco Rencinai (tenore), Ensemble strumentale dell’O.T.Li.S. – Orchestra del Teatro Lirico Sperimentale . spazio e costumi Ermanna Montanari . luci Luca Fagioli, Enrico Isola . maestri collaboratori Francesco Massimi, Yuna Saito . direzione tecnica Luca Fagioli, Enrico Isola . direttore di scena Irene Lepore . fonico Luca Starpi . elettricista Marco Marcucci . responsabile della sartoria Clelia De Angelis . trucco Patrizia Di Francescantonio . attrezzista Marco Giustini . allestimento scenico a cura del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto in collaborazione con la squadra tecnica del Teatro delle Albe Fabio Ceroni, Luca Fagioli, Enrico Isola, Danilo Maniscalco . materiale illuminotecnico Span Ensemble . materiale fonico Sound Store Spoleto

Prima nazionale Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto, 12 settembre 2014  


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