Politica

Terzo Settore, cambiare si può

Lo dimostrano i due casi del Servizio civile universale e dell’impresa sociale. Due proposte nate dal basso, dicusse e messe a punto attraverso confronti promossi da Vita. E ora parte della Riforma. In anteprima l'editoriale di Vita Magazine in edicola da oggi

di Riccardo Bonacina

Sembrava impossibile. E invece, ancora una volta, un’urgenza reale e diffusa, una volta letta nelle sue ragioni e perciò restituita lealmente al dibattito pubblico (questo è poi il compito di un media come il nostro), è riuscita dapprima a conquistare un ampio e trasversale consenso e poi ad influenzare il legislatore.

Ci riferiamo alla “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale”, che oltre a recepire il contenuto di una campagna avviata da Vita un paio d’anni fa, quella per il Servizio civile universale, ha fatto suoi anche i contenuti di una profonda riflessione sull’impresa sociale che esattamente un anno fa, Vita insieme a Iris Network avevano avviato in un seminario ristretto a Riva del Garda il 12 settembre 2013.

La proposta del Servizio civile universale così come quella di una Riforma della legge 155/06 nascevano da un  giudizio: il fallimento del Servizio civile volontario ormai incapace di rispondere alla voglia (residua) di impegno dei giovani italiani, e il fallimento della legge sull’impresa sociale scritta nel 2006 soprattutto da chi l’impresa sociale in questo Paese non la voleva. Non è mai facile in questo Paese ragionare lealmente sui fallimenti giacché la colpa la si imputa sempre agli altri. Per questo promuovemmo a Riva del Garda un incontro protetto e a numero chiuso affinché fosse possibile ragionare senza paure o preoccupazioni da rappresentanze di settore (i cooperatori, i capitalisti buoni, i tecnici, ect). Tra gli altri erano presenti, oltre al sottoscritto, Carlo Borzaga, Andrea Rapaccini, Letizia Moratti, Roberto Randazzo, Pino Bruno, Leonardo Sacco, Felice Scalvini e Flaviano Zandonai. Ne uscimmo con la convinzione che i punti di una possibile e realistica riforma fossero cinque e riguardassero i modelli di governance, l’inclusione lavorativa, la leva fiscale, il nodo sulla redistribuzione degli utili che doveva andare oltre il tabù del divieto alla ridistribuzione, e l’ampliamento dei settori di intervento.

Cinque punti che rappresentavano il minimo comun denominatore condiviso per provare a voltare pagina. Nella convinzione che si stava ormai aprendo una stagione nella quale ciò che si definisce non profit o Terzo settore, aveva finalmente l’occasione di compiere quel salto di qualità imprenditoriale che gli si chiede da tempo, per contribuire a sostenere un modello di sviluppo più adatto ad affrontare nuove sfide e a dare risposte innovative alla fase di recessione e di disoccupazione che l’Europa sta attraversando.

Da quel 12 settembre iniziò poi un cammino in giro per l’Italia, convegni (tra cui uno partecipatissimo in Università Bocconi) e incontri sino alla formulazione più compiuta delle cinque proposte a fine ottobre in Parlamento, proposte parzialmente riprese anche in un disegno di legge (Stefano Lepri) e in un emendamento al decreto Sviluppo del gennaio scorso (Luigi Bobba). Ora dopo neppure 10 mesi, il 10 luglio il Governo ha licenziato la Legge delega di Riforma che recepisce quelle proposte.

La morale? Cambiare si può. Basta avere fiducia nei dati di realtà che sempre suggeriscono ciò che davvero occorre e aver fiducia nelle proprie ragioni e nell’utilità del dialogo. Una fiducia di cui avremo ancor più bisogno ora che i contenuti della legge delega devono tradursi nel più breve tempo possibile in leve di nuovo sviluppo e di nuova occupazione. E molto dipende ancora da noi prima ancora che dalla politica.

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