Cultura
Occidente Ottuso
Quello che sta succedendo nel mondo arabo è frutto di una miopia dell’occidente. Che si è illuso che una democrazia formale fosse la soluzione. Un lucido j’accuse lanciato da Weal Farouq
di Redazione
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Mentre negli ultimi tre anni eravamo impegnati a manifestare, credendo di vivere una rivoluzione continua, le stagioni ci passavano sopra senza che ce ne accorgessimo: la primavera araba, l’autunno militare, l’inverno islamista…
Durante i primi 18 giorni della rivoluzione in Egitto, ho avuto varie conversazioni telefoniche da piazza Tahrir con un certo numero di giornali italiani. Poi, dopo la caduta di Mubarak, sono stato sorpreso nel vedere che le mie parole erano finite sotto il titolo “la primavera araba”.
Eravamo in inverno, era gennaio e quella era la “rivoluzione di gennaio”. Forse qualcuno penserà che la mia sorpresa fosse ingiustificata, perché la primavera è la stagione in cui i fiori sbocciano e gli alberi danno frutti, e la rivoluzione era un fiore o un frutto. La metafora era ben chiara, ma per una persona come me, nata e cresciuta in Egitto, l’esperienza di vita, talvolta, precede il pensiero metaforico. La primavera, per chi conosce i paesi arabi, è il mese in cui si alza la temperatura e soffiano i venti caldi carichi di sabbia, come il khamasin, il haboub e il simun, che non hanno alcun legame con quella metafora.
Se c’è qualcosa da capire di questa metafora, è che essa ha privato la rivoluzione dello spazio e del tempo, della storia e della geografia, proprio nel momento in cui centinaia di martiri cadevano in difesa del luogo che la rivoluzione aveva strappato per sé – piazza Tahrir – e del tempo che, per la prima volta, portava nomi scelti da noi – il “martedì dei martiri”, il “venerdì della partenza”, ecc.
Con il possesso del luogo e del tempo, ci siamo impadroniti dello spazio e dell’etere, attraverso il quale avremmo divulgato non la nostra rabbia, bensì il nostro umorismo. Sì, è stato il nostro umorismo a far cadere Mubarak e poi Morsi, perché l’effetto minimo ottenuto dall’umorismo è stato cacciare il dittatore dal tempo e dallo spazio, trasformandolo nella semplice caricatura di qualcosa che era vera ma non reale, qualcosa che faceva ridere ma non paura.
Nel 1978, allo scoppio della rivoluzione iraniana, il celebre filosofo Michel Foucault si trovava nelle strade di Teheran come inviato del Corriere della Sera. Descrisse il conflitto in corso con varie metafore: «La situazione in Iran si può comprendere come una grande tenzone fra due personaggi dal blasone tradizionale, il re e il “santo”, il sovrano in armi e il povero esule, il tiranno che combatte un uomo inerme acclamato dal popolo». Foucault invitava a stare tranquilli e faceva propaganda a Khomeini e a un “governo islamista”. Diceva, infatti: «Non esiste una catena gerarchica fra gli uomini di religione, i leader religiosi beneficiano di una certa indipendenza fra loro, ma dipendono (qualcuno finanziariamente) dai seguaci». E gli uomini di religione non erano soltanto democratici, ma anche portatori di una visione politica innovativa.
Foucault cercava di rassicurare i lettori riguardo ai diritti della donna e delle minoranze religiose. Infatti, le sue fonti vicine agli islamisti gli assicuravano che: «Le libertà continueranno a essere rispettate, fintanto che il loro esercizio non nuocerà agli altri. Le minoranze godranno di tutela e libertà, e potranno vivere come desiderano, a condizione che non nuocciano alla maggioranza. Vi sarà uguaglianza fra uomini e donne, ma anche diversità, in considerazione delle differenze naturali fra loro». Foucault terminava il suo articolo accennando all’estrema importanza della “spiritualità politica” in Iran e alla perdita di questa spiritualità nell’Europa contemporanea.
Scriveva Foucault in proposito: «Noi ci siamo dimenticati della possibilità di porla in essere, dal Rinascimento e dalla grande crisi del cristianesimo in poi». Foucault criticava i timori europei riguardo all’islam. Disdegnò la lettera di una signora iraniana in esilio che lo accusava di essersi fatto accecare dalla metafora della “spiritualità politica”, contribuendo così a difendere l’oppressione operata da Khomeini nei confronti di milioni di donne iraniane, con la deprivazione dei loro diritti fondamentali. Foucault non mutò posizione, sprofondato com’era nella sua metafora. Poi mantenne il silenzio, quando le pratiche criminali della spiritualità politica iraniana non lasciarono più spazio a giustificazioni.
Le metafore possono uccidere, dice George Lakoff in una serie di articoli sulla metafora e la guerra. Quando s’impiega la metafora dello “Stato-persona”, riducendo la nazione irachena alla figura di Saddam Hussein, è come se le tremila bombe cadute nel primo giorno fossero state dirette solo a lui e le migliaia di persone che hanno perso la vita a causa di ciò non fossero altro che ombre del dittatore. L’accostamento di Bush a Foucault può sembrare estremo, tuttavia la natura semplificatrice propria delle metafore, attraverso le quali costoro hanno scelto di presentarci il mondo, è ciò che li unisce. Infatti, la costruzione di una metafora esige la semplificazione dei due elementi che la compongono. Per esempio, quando descriviamo un volto come luminoso, riduciamo sia il volto sia la luna (o il sole), cui il primo somiglia per luminosità, al solo significato associato alla luce, e per far emergere questo significato nascondiamo tutti gli altri dettagli, cioè se il volto è giovane o anziano, grande o piccolo, simmetrico o asimmetrico, ecc.
Essendo immerse nelle metafore, le letture e le analisi di ciò che è accaduto a sud del Mediterraneo, sia che provenissero da destra sia che provenissero da sinistra, sono state una serie di costruzioni…
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