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L’appello del vescovo di Tripoli: accogliete i profughi

La chiesa locale è in prima linea nel supporto a chi scappa dai paesi sub-sahariani. Monsignor Giovanni Martinelli: «Affrontano prove disumane. Ma nessuno è pentito di essere partito. È gente che va in cerca di futuro, cerca di sistemare la propria vita, è gente che ha bisogno di essere accolta»

di Martino Pillitteri

«Li guardo negli occhi e spero che trovino un barcone che li porti via. È l’unica soluzione per loro». È quello che monsignor Giovanni Martinelli, francescano, vicario apostolico di Tripoli, auspica per i profughi sub-sahariani presenti in Libia. Martinelli è un punto di riferimento per la comunità cristiana e fonte d’aiuto e di assistenza per decine di profughi. Ma la situazione è talmente drammatica che non rimane altro che rischiare la vita nel Mediterraneo.

Ci fa un quadro della situazione?
Siamo isolati, non possiamo uscire dalla Libia. Attualmente hanno interrotto i voli. Ma la situazione sociale è tranquilla. Poi c’è il fattore profughi. C’è una massa di gente che viene dai Paesi del sub-Sahara sperando di trovare una soluzione ai loro problemi, quello che io chiamo uno sbocco. Poi arrivano qui in Libia e scoprono che soluzioni e sbocchi non ci sono.

I profughi sono consapevoli di come sia dura trovare lo sbocco?
Penso che buona parte sappia quanto in Libia sia duro trovare delle soluzioni per una vita migliore. Ma la disperazione, nei loro Paesi di origine, è tale che non rimane altro che tentare di fare qualcosa di drammatico. Sono anche consapevoli che la vita in Europa sarà meno dura di quella che hanno nei loro Paesi e in Libia. La situazione che vivono è indecifrabile. I loro racconti ti disarmano. La loro vita è un tunnel. A furia di sentirmi dire «ovunque la vita è migliore rispetto a quella nei nostri Paesi», capisci e accetti che l’unica cosa che puoi fare è tentare di aiutarli a vivere decentemente in Libia e sperare che trovino una barca per attraversare il Mediterraneo, anche rischiando la vita.

Che tipo di assistenza offre?
Il grosso del lavoro lo facciamo il venerdì, il giorno del social service. Offriamo pane ed altro cibo. Nel nostro ambulatorio curiamo i malati, ci occupiamo delle donne incinte. Ormai la Chiesa è diventato il punto di riferimento per molti disperati. Il passa parola funziona benissimo. Poi cerchiamo anche di piazzare i feriti nelle strutture sanitarie locali. I libici, quando possono, cercano di dare una mano agevolando il nostro lavoro. Ma più di tanto non possono fare. Il governo libico non ha soluzioni. L’unica cosa che fa è quella di mettere le persone nei centri di raccolta. Non hanno neanche l’idea di fare qualcos’altro. Noi li chiamiamo centri di accoglienza, ma in realtà sono centri di raccolta per non farli uscire troppo, e per cercare di controllarli.

È favorevole ai campi profughi gestiti dall’Onu?
Onu? Qui ci sono 10 ragazzi dell’Onu. Si impegnano, ma cosa possano fare a parte gestire dei casi particolarmente drammatici? È difficile che in Libia vengano create strutture Onu stile campi profughi presenti in altri paesi. La mentalità libica non è aperta a questa possibilità. Poi la gente non vuole stare in Libia. Ma vorrei fare un appello attraverso il vostro giornale.

Lo faccia!
Non rigettate questa gente. Date accoglienza. È gente che va in cerca di futuro, cerca di sistemare la propria vita, è gente che ha bisogno di essere accolta. Vedo che l’Italia fa degli sforzi straordinari, questo impegno è segnale di una grande civiltà.


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