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Amnesty e il caso Berardi

Parla Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, tra le poche associazioni ad essersi espresse chiaramente sulla vicenda. «Abbiamo chiesto invano alle autorità guineane dei chiarimenti sulla sua situazione. Non ci è mai stato risposto»

di Andrea Spinelli Barrile

Mentre sabato scorso pubblicavamo l'articolo sulla drammatica vicenda africana di Roberto Berardi il fratello ci informava dell'ennesima evoluzione, proprio in quei minuti, degli eventi: l'imprenditore è stato infatti ritradotto in carcere, a Bata, nonostante il referto medico della clinica La Paz ne raccomandasse 20 giorni di convalescenza. Le vicissitudini dell'imprenditore italiano sono infinte: numerose volte l'alternanza tra buone e cattive notizie, che dall'Africa arrivano a frammenti, lacera la catena dei fatti mostrando la crudeltà anche psichiatrica dei carcerieri di Roberto Berardi, che saggiamente concedono e puniscono, accordano e negano. Ci siamo chiesti come mai del drammatico caso di Roberto Berardi, imprenditore pontino detenuto da 20 mesi nel carcere di Bata, in Guinea Equatoriale, si parli così poco. E soprattutto ci siamo chiesti come mai un caso come quello di Berardi non sia “notiziabile” come, ad esempio, il caso indiano dei Marò, come la diplomazia si muova in questi casi e quali siano le difficoltà nel gestire trattative diplomatiche simili.
Per trovare una risposta ci siamo rivolti a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, tra le poche associazioni ad essersi espresse chiaramente sul caso Berardi e da sempre attiva nel denunciare le violazioni sistematiche dei diritti umani da parte del regime equatoguineano.

Quale è la posizione di Amnesty International sul regime in Guinea Equatoriale?
La situazione della Guinea Equatoriale è sempre presente nei rapporti annuali che Amnesty International redige; si potrebbe dire che la situazione in quel paese è alla nostra attenzione dal 1979, anno in cui avvenne il colpo di Stato di Teodoro Obiang Nguema. Da quell'anno non manca mai una parte dedicata alle torture, ai diritti umani negati, ai trattamenti inumani nelle carceri, all'impossibilità di esprimere qualunque tipo di dissenso o critica nei confronti del regime della Guinea.

Come Amnesty avete espresso una posizione sul caso Berardi?
Abbiamo chiesto invano alle autorità della Guinea Equatoriale dei chiarimenti sulla sua situazione: quali fossero le accuse e quali prove ci fossero a sostegno delle accuse, quale fosse il suo destino. Non ci è mai stato risposto. Abbiamo poi appreso della condanna e della successiva multa come sanzione aggiuntiva.

Della vicenda di Roberto Berardi, contrariamente ad altri casi internazionali come quello dei Marò, se ne parla poco sui media. Come mai si fa così fatica a parlarne?
Quella di Berardi è una vicenda abbastanza simile a quella di altri 3000 connazionali detenuti all'estero, di cui si sa poco e per i quali c'è in essere un lavoro diplomatico prudenziale e confidenziale, che voglio immaginare vada avanti. Sulla base dell'esperienza del nostro blog sul sito del Corriere della Sera, nelle due occasioni in cui abbiamo raccontato del caso Berardi, l'attenzione del pubblico non si è manifestata se non in pochi commenti nei quali, molto semplicisticamente, si leggeva che «se l'è cercata, vedi che succede a trattare con quella gente?». Mentre nel caso dei Marò il fedele servitore dello Stato che è ingiustamente detenuto in India mobilita il pubblico, nel caso dell'imprenditore italiano che ha cercato di fare buoni affari in un paese nel quale non li ha fatti vede su di se lo stigma di quello che è stato imprudente.

Quale è un altro punto di vista invece?
Dal nostro punto di vista “pari sono”. Né i Marò né Berardi sono prigionieri di coscienza, per i quali Amnesty può chiedere la liberazione perchè hanno criticato pacificamente le autorità del luogo; sono casi di detenzione, per motivi diversi, prolungata e proprio per questo ingiusta.

Sarebbe meglio evitare, in questi casi, di fare impresa con certi regimi?
Non è il campo nostro. Ci sono dei rischi e delle imponderabilità, come anche l'umoralità degli interlocutori. Spesso si fanno affari con attori che sono nient'altro che il prolungamento della persona che detiene il potere; nessuno credo sia così irresponsabile a non valutare il rischio. Io non posso però addebitare ad un singolo imprenditore la colpa di fare affari con chi viola i diritti umani. Quella è una valutazione che fanno i singoli.

Quanto può influire nelle trattative diplomatiche l'assenza di un'ambasciata italiana in Guinea?
Può influire, penso che possa fare la differenza. Anche perchè Bata non è esattamente raggiungibilissima. Ma è anche vero che ci sono tutte le condizioni: nel novembre scorso se ne è occupata la trasmissione “Chi l'ha visto?”, il caso è all'attenzione dell'associazione “Prigionieri del Silenzio”, la famiglia Berardi è attiva. Che si possa fare di più e meglio è certo: si potrebbe fare meglio avendo una rappresentanza diplomatica lì, il che vuol dire riconoscere anche la Guinea come partner importante. Se non è così significa che sono state fatte valutazioni differenti. Tuttavia non penso che non ci sia interesse a far tornare Berardi a casa.

Nella strategia diplomatica esistono degli ausili, come l'Eni, ai quali l'Italia potrebbe aggrapparsi nelle trattative, o che sono già stati utilizzati in casi simili?
Non ho memoria di una situazione in cui una politica estera fatta prevalentemente da aziende italiane o congiuntamente tra aziende italiane e Farnesina abbia portato a risultati soddisfacenti in termini di diritti umani. A volte anzi può essere un'ostacolo. Penso a quanto le autorità italiane si sono comportate nella vicenda Shalabayeva. Non so quanto possa aiutare in questi casi avere rapporti commerciali, soprattutto quando di mezzo ci sono gli idrocarburi.

Quale è la vostra posizione nel caso di Roberto Berardi? Quale la vostra richiesta?
Che gli siano riconosciute tutte le salvaguardie del diritto internazionale sul trattamento detentivo: visite regolari, cure mediche adeguate, dignità della detenzione, che poi è quello che chiediamo per chi viene arrestato per reati di opinione. Fare l'imprenditore e non l'oppositore politico non può essere un motivo per trattamenti inumani e degradanti in carcere, per vedersi negati i diritti. Speriamo che poi ci sia una soluzione diplomatica che porti ad una soluzione ed una fine anticipata di questa vicenda.
 

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