Mondo

Frana una favela ma “the show must go on”

A causa della pioggia si è aperta un'enorme voragine nel cuore della favela attigua allo stadio che ospiterà la partita dell'Italia. Nove i morti. Ma per tutti i giornali il problema è che il match sia a rischio

di Lorenzo Alvaro

A causa delle precipitazioni nelle ultime ore si è aperta un'enorme voragine (come si può vedere nelle immagini dela BBC in copertina) in una favela di Natal, a quattro chilometri dallo stadio in cui domani si affronteranno Italia e Uruguay.

La notizia però non è questa. La vera novità è che, una volta presa a rotolare la palla, una tragedia sfiorata rimane una nota di colore.

Se, prima dell'inizio della manifestazione calcistica, le proteste (per la verità poche e contenute) erano state il cuore di tutti i programmi e i servizi sul Brasile del Campionato del Mondo, oggi che la competizione entra nel vivo a nessuno interessa più nulla di quel che succede al di fuori del campo da gioco.

Basta infatti fare una rapida ricerca sulla rete per scoprire che in pochi danno notizia del crollo. E quei pochi che ne parlano titolano dicendo più o meno: “crolla la favela, timori per la partita».

Siamo cioè al punto che, di fronte al dramma di decine di sfollati che si sono visti inghiottire la casa (per lo più baracche di lamiera), i pochi averi, e 9 concittadini nel fango , riusciamo ad dentificare con le parole “dramma” e "timore” l'ipotesi di un rinvio calcistico.

La notizia non conquista una spazio nella home page né di La Repubblica che del Corriere (che però propone l'inno nazionale rivisto da Fiorello). Nessun cenno ai fatti neanche dal sito della Gazzetta dello Sport.

Ora è chiaro che i Campionati del Mondo siano importanti. Ed è giusto che vengano seguiti con attenzione. Ma fino a che punto lo show deve continuare? Fina a che livello una manifestazione sportiva può offuscare e nascondere tutto il resto? E ancora, è questo la società dello spettacolo di cui parlava Guy Debord?


Una risposta ce l'ha data Albert Camus (riporto un passaggio di un bel articolo di Marco Dotti, “Il giornalismo di Camus”). «“Tutto quel che di fatto degrada la cultura, accorcia le strade che portano alla schiavitù”. Chiacchiere inutili, miseri personalismi smerciati come fatti di rilevanza collettiva, lamentele di direttori di quotidiani: tutto. Albert Camus era, su questo punto, chiaro e intransigente, ma nell’articolo che scrisse per l’ultimo numero della rivista Caliban, fondata nel 1947 da Daniel Bernstein e Jean Daniel, si spinse ancora più in là: individuò nella critica della stampa a mezzo stampa e “in una società che tollera di essere distratta da un pugno di cinici saltimbanco, fregiati del nome di artisti”, il pericoloso movimento di apertura a un orizzonte di nuove, indefinite e per ciò stesso potenzialmente più temibili schiavitù. Nel suo affondo, Camus non risparmiava colpi contro gli scrittori che – osservava – “se avessero la minima stima del proprio mestiere, si rifiuterebbero di scrivere dove capita”»

È di questi giorni anche la notizia dei corsi di formazione obbligatori per i giornalisti, con relativa valanga di critiche. Al di là degli scandali che questo obbligo porta, con corsi a pagamento in favore dei soliti noti, il punto vero forse è che più che aggiornarsi sarebbe il caso di guardare al passato. Più che parlare di social e 2.o sarebbe il caso di tornare all'abc. E ricordare che Gustave Fluabert diceva: «instillate nel pubblico il gusto delle grandi cose e lascerà le piccole, o piuttosto lascerà le piccole divorarsi tra loro».


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