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Banca per lo sviluppo? Pensiamoci ma occorre chiarezza

Così interviene il segretario aggiunto di Action Aid, sulla proposta del consigliere politico del Viceministro degli Esteri, Lapo Pistelli, lanciata su Vita.it in vista della riforma della legge 49 sulla cooperazione internazionale

di Luca De Fraia

Action Aid è la prima organizzazione non governativa che risponde alla richiesta che Emilio Ciarlo ha fatto nell'articolo pubblicato su Vita.it in cui chiedeva alle ong di esprimere un parere sulla costituzione di una banca di sviluppo italiana. Riceviamo e pubblichiamo quanto scrive Luca de Fraia, segretario aggiunto di Action Aid.
 


Luca De Fraia, segretario aggiunto di Action Aid

La proposta tratteggia le modalità per generare risorse che, si lascia intendere, possano poi essere messe a disposizione di tutta la cooperazione italiana, in particolare della nascente Agenzia: il “blending”, la combinazione di una componente a dono con prestiti veri e propri; il “matching” fra aiuti italiani e risorse private e/o di origine internazionale; i “social bond”. Cose assai diverse: i social bond lasciano intendere la possibilità per le istituzioni pubbliche di realizzare raccolte fondi sul larga scala, con buona pace del principio della sussidiarietà. Blending e matching sono invece strumenti attraverso i quali, con l’impiego di una componete in aiuti, si dovrebbero generare risorse aggiuntive.

Un ragionamento da collocare nel contesto dell’aggiornamento dei canoni della cooperazione allo sviluppo, che prende forma in diversi luoghi e processi internazionali, fra i quali la scena europea merita un posto di prima di piano. Nello spazio di pochi anni ha preso corpo anche nelle istituzioni europee la convinzione che la cooperazione, e gli aiuti in particolare, debbano servire ad attrarre altre tipologie di risorse, anche private; si tratterebbe quindi di usare gli aiuti come “leva finanziaria”, una funzione della quale, al dire il vero, si ritrova già traccia nella dichiarazione di Monterrey sulla finanza per lo sviluppo del lontano 2002. L’argomento principe per giustificare questo corso d’azione è presto detto: servono tante risorse per raggiungere gli obiettivi di sviluppo e gli aiuti non bastano.
 
Usare gli aiuti come “leva” pone diversi problemi, in primo luogo la capacità di dare certezza al fatto che siano perseguiti, in modo trasparente e verificabile, obiettivi di sviluppo così come definiti dagli Obiettivi del Millennio, o da quelli della nuova agenda post 2015. Da questo punto di partenza non si scappa se l’intenzione è fare cooperazione allo sviluppo. Se l’obiettivo è invece quello di realizzare cooperazione economica e promozione dell’impresa italiana, si apre un discorso assai diverso.
 
Per il momento poco si dice sul tipo di operazioni che la banca dovrebbe intraprendere. Evidentemente non si tratta di replicare quanto si realizza con gli strumenti attuali, ovvero prestiti concessionali (Fondo Rotativo), ma anche coperture assicurative (SACE) e promozione (SIMEST) a favore delle imprese italiane. Infatti, le istituzioni per la finanza per lo sviluppo che operano a livello globale si caratterizzano per veri e propri investimenti nei Paesi partner, ad esempio in equity portoflios; nella gestione delle loro attività devono produrre un ritorno, ovvero un profitto, seguendo regole simili a quelle del mercato. In questo elemento sta la profonda differenza dalle agenzie di sviluppo.
 
Vista la tipologia di prodotti finanziari, la comunità internazionale considera queste operazioni come distinte dagli aiuti veri e propri, collocandole nel perimetro più largo delle attività che possono avere un impatto positivo sullo sviluppo, sebbene abbiano caratteristiche più vicine a quelle di mercato. Proporrei quindi che la discussione su una banca di sviluppo parta proprio dal tipo di prodotti finanziari che essa dovrebbe utilizzare per garantirsi la propria sostenibilità, per capire se e in che modo possano essere riconsiderati nel campo della cooperazione allo sviluppo.
 

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