Cultura
Un cristiano sul trono di Pietro. Giovanni XXIII visto da Hannah Arendt
Fu un uomo semplice e di vera fede, pratico e deciso, ma anche ricco di scaltrezza contadina. Le caratteristiche che spinsero la filosofa a scrivere del profilo singolare di un uomo che alla banalità del male oppose la quotidianità pratica del bene
di Marco Dotti
Come è stato possibile che, fra tanti, sul trono di Pietro si sia infine seduto proprio un cristiano? Hannah Arendt si sentì porre questa domanda, in forma semplice e diretta, da una cameriera romana. La donna – semplice e schietta come le sue parole, che d’altronde interpretavano un sentimento diffuso — subito aggiunse: «non ha forse dovuto essere nominato vescovo, arcivescovo e cardinale, prima di essere infine eletto papa? Nessuno si era accorto di chi fosse realmente?».
La risposta, ovviamente, tendeva al «no, non si erano accorti» e Arendt ricorderà, riproponendole, domanda e risposta in un articolo del 1965, titolato The Christian Pope, originariamente apparso sulla New York Review of Books, successivamente confluito nel volume Men in Dark Times e ora ripresentato, per la cura di Paolo Costa, al lettore italiano (Il papa cristiano. Umiltà e fede in Giovanni XXIII, EDB, pp. 46, euro 5).
«Papa cristiano» diventa quasi un ossimoro se letto attraverso la lente offerta dalla cameriera romana. Religiosità popolare e tiara sembravano divergere radicalmente, fino all’eccezione di Giovanni XXIII. Soprattutto perché sul pontificato di Giovanni XXIII (dal 28 ottobre 1958 al 3 giugno 1963), al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, le testimonianze e gli aneddoti di vita quotidiana concordano proprio sul punto: fu un uomo semplice e di vera fede, pratico e deciso, ma anche ricco di scaltrezza contadina – tutto il contrario di un papa intellettuale, insomma.
È proprio su quella che a molti parve rozzezza mascherata da bontà che si condensa la riflessione – breve, ma incisiva – che Arendt dedica al profilo singolare di un uomo che alla banalità del male oppose la quotidianità pratica del bene. Lo stesso Roncalli annotava che molti lo consideravano un «papa di transizione». A sorprendere non è tanto il fatto che non fosse nella lista dei papabili ma, commenta Arendt, che «nessuno si fosse accorto di chi egli realmente fosse, e che venne eletto proprio perché tutti lo consideravano una figura di scarso peso».
Rileggendo Il giornale dell’anima (a cura di Loris Francesco Capovilla, edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1964), il diario spirituale di Roncalli uscito in traduzione inglese nel 1965, Arendt parla di un libro «stranamente deludente e stranamente affascinante». E cerca proprio in quella serie di annotazioni la risposta alla domanda che circolava sulla bocca di molti e che la cameriera romana non faceva che condensare in forma diretta: chi era l’uomo che, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 1963 giaceva sul letto di morte in Vaticano? Che molti lo considerassero un «minchione» (l’espressione è di Roncalli) non era un mistero, ma che quell’uomo si inscrivesse nella linea di coloro che spesso in silenzio e umiltà hanno praticato, e non solo predicato, l’imitatio Christi è un problema ben più ampio che attiene proprio la quotidianità del bene e il suo «movimento», rispetto alle dinamiche della Chiesa-istituzione.
«Dicono e credono che io sia un minchione. Lo sarò anche, ma il mio amor proprio non lo vorrebbe credere. È qui il bello del gioco», scriveva Roncalli. Eppure, alla fine, il suo «gioco» conquistò e la Chiesa e il mondo. Ma non fu semplice, come ricorda Arendt, perché «nel bel mezzo del nostro secolo quest’uomo ha deciso di prendere alla lettera ogni articolo di fede che gli era stato insegnato». Eppure, questo prendere alla lettera, non fu semplice e tanto gli anni trascorsi in Bulgaria, quanto quelli passati a Istanbul furono «una vera croce» a causa delle dinamiche della diplomazia vaticana.
C’è però un passaggio, interessante, nella lettura di Arendt. È il richiamo alla «resistenza»rispetto alla seduzione intellettuale che molti credenti hanno esercitato su pensatori atei e critici laici. Le sue pagine risultano dure e persino sterili, se lette con la lente dell’appassionato di teologia. «Generazioni di intellettuali moderni, quando non erano atei – cioè sciocchi che fingevano di sapere ciò che nessun uomo può sapere – hanno imparato da Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche e dai loro numerosissimi seguaci, dentro e fuori il movimento esistenzialista, a considerare ’interessanti’ le questioni teologiche. Senza dubbio per tutti costoro sarà difficile comprendere un uomo che, sin dalla tenera età, aveva ’fatto voto di fedeltà’ non solo alla ’povertà materiale’, ma a quella di ’spirito’».
In fondo, prescindendo dalla domanda su chi davvero fosse Giovanni XXIII, è pur sempre questo suo non essere mai stato intellettuale, in senso latamente borghese, a affascinarci e perturbarci al tempo stesso. Fu sempre un pessimo studente, non leggeva molti libri, amava solo i quotidiani. Sciocco? Scaltro? O solo un uomo realmente povero di spirito? La domanda rimane, eppure è proprio sul fondamento di questa domanda – la sua povertà di spirito — che risiede la capacità di incidere sull’attimo, sul presente, sulle dinamiche profonde del quotidiano di un uomo mai privo di visione come fu Roncalli. Fino alle sue ultime parole, pronunciate in fin di vita, che rilanciano a noi la questione: «ogni giorno è buono per nascere, ogni giorno è buono per morire». Tutti, però — e qui sta la chiave — sono «buoni» per agire.
@oilforbooks
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