Welfare
Tomaso Montanari: il recupero non sia fine a se stesso
A 5 anni al terremoto sono 300 i cantieri aperti nel centro storico. Ma il rischio è che si pensi solo alla tutela, senza sapere come e se quelle strade si ripopoleranno
Era uno dei centri storici più grandi e più belli d’Italia. Quel 6 aprile 2009, al terremoto devastante delle ore 3,32, s’aggiunse una una disgrazia in prospettiva ancor più devastante: la decisione quasi immediata di puntare sulle new town, puntellando la parte storica in attesa di capire che farne. Dei 20 mila abitanti, nel centro rimasero un centinaio. I negozi non superavano la trentina: insomma, una città morta. Ora, a 5 anni di distanza, la ricostruzione è inziata. L’Aquila è un grande cantiere (sono 300 i cantieri aperti in questo momento) che durerà per tantissimo tempo, e che certamente recupererà gran parte degli edifici lesionati dal sisma. Ma questi 5 anni sono come una voragine, in quanto la vita è stata traslocata altrove e quindi il rischio è che quest’operazione di recupero si trasformi in una museificazione. A lanciare l’allarme erano stati, un anno fa, oltre mille storici dell’arte che si erano dati appuntamento per una manifestazione a cui aveva preso parte anche l’allora ministro Bray, chiedendo non solo l’avvio dei cantieri, ma anche una riflessione sul futuro di quel grande centro storico. A guidare quella manifestazione senza precedenti c’era Tomaso Montanari, storico dell’arte, fiorentino ma di stanza all’università di Napoli. Montanari è un vero “pasionario”, titolare di un lettissimo blog sul fatto.it, e autore di numerosi scoop sulle malefatte nella gestione del patrimonio artistico in Italia (da leggere il suo Le pietre, il popolo, Minimumfax).
Come sta andando la ricostruzione?
Sta andando avanti con serietà, sotto la direzione di Fabrizio Magani. Ma il tema per me è un altro. Oggi si sta procedendo a mazzhia di leopardo, con cantieri sparsi in tutto il centro storico. Questa scelta è emblematica di una questione che non vien affrontata: non si capisce chi verrà a vivere in questa città. Invece se si fosse proceduto per zone e non per palazzi isolati, si sarebbero recuperati spicchi di città che potevano essere abitati e tornare ad una vita quasi normale. Invece facendo così si va purtroppo verso una città museo.
Perché questa non scelta?
Perché si concepisce il recupero solo nei suoi apsetti conservativi, mentre invece ci vuole una visione sociale, che insieme al recupero pensasse al ripopolamento. Invece questa è una consapevolezza che manca: gli storici dell’arte un anno fa qui a L’Aquila avevano proprio puntato l’attenzione su questa urgenza. Un centro storico sta in piedi se resta come luogo di vita attiva e di relazioni. Altrimenti alla lunga non c’è recupero che tenga. Ne abbiamo parlato anche con Franceschini, ma non so quanto sia stata colta la centralità della questione. Invece ha funzionato il cordone di solidarietà tra gli storici dell’arte: l’istituto germanico a Roma a settembre ha promosso un convegno internazionale che partendo dall’Aquila affronterà proprio questi temi. L’Aquila è davvero una questione nazionale.
In che senso?
A L’Aquila ciascuno può rivedere se stesso in rapporto a luogo dove è nato o dove vive. È il luogo in cui si capisce cosè la dimensione di città nella nostra storia: una dimensione civile, in cui la forma urbis architettonica è perfettamente armonizzata con la forma della polis, cioè con la forma della convivenza. Questo è un patrimonio che riguarda tutti e che quindi aiuta a capire cosa è accaduto in questi decenni nelle nostre città, spesso devastate da operazioni che recidono questo legame vitale con la storia. In un certo senso sono state tutte terremotate, e L’Aquila per questo deve essere guardato come a un caso nazionale. Nella nostra storia l’arte ha sempre avuto a che fare con la coesione e con il sentirsi comunità. Se recidiamo questo legame, il destino è quello di ritrovarci prigionieri di un paese di new town.
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