Volontariato

Mettersi in movimento è anche una festa

Il 6 aprile a Torino la "Prima Vera Festa di Barriera" promossa dall'Asai è una delle storie di protagonismo dal basso, di «voglia di comunità che ci mette in moto» per Tiziana Ciampolini (Osservatorio Povertà Caritas Torino)

di Redazione

Ci sono storie che rompono gli schemi e che indicano nuove direzioni. E le si può scoprire e incontrare andando sul territorio, tra le comunità. Ed è di queste che parla Tiziana Ciampolini, dell’Osservatorio delle Povertà e delle Risorse di Caritas Torino in un suo testo “Quella voglia di comnità che ci rimette in moto davvero”.

Una di queste è, per esempio, la storia di Federico di Bologna e della nascita della Social Street via Fondazza, in pochi mesi l’esperienza si sparge a macchia d’olio in Italia e sono diventate 160le Social Street (ne avevamo parlato sul numero di febbraio di Vita).

Tra le storie torinesi citate vie è quella di un evento imminente ai giardini ex Ceat, in via Leoncavallo a Torino, dove domenica 6 aprile si celebrerà la “Prima Vera Festa di Barriera”, con inizio alle ora 11. Genitori e bambini si incontreranno per conoscersi e per mangiare insieme. Le famiglie, insieme all’Asai, associazione di animazione interculturale, stanno preparando un vero pranzo della domenica, con una lunga tavolata multietinica in cui ognuno porterà qualcosa da condividere. È la prima volta che Asai organizza una festa così in Barriera ma l’ha già fatto in altri quartieri: l’ultima volta erano in 1000 in piazza Madama Cristina, a San Salvario

«Esperienze come queste non sono isolate, le ritroviano fuori e dentro le nostre comunità ecclesiali: un’indagine di Caritas Italiana sulle esperienze prodotte dalle Parrocchie nel 2013 in risposta ai nuovi processi di impoverimento individua 244 iniziative nate in modo spontaneo a partire dai bisogni dei territori» scrive Ciampolini. «Queste idee virali che si espandono veloci nei nostri territori ci presentano alcuni elementi da riconoscere e da rilanciare in nuove forme socialità e di impegno sociale e politico».

Elementi come il riconoscere che territori e persone si dimostrano capaci di darsi risposte nuove e in grado di moltiplicarsi, o che queste esperienze raccontano il bisogno di relazioni autentiche e che soprattutto si tratta di esperienze prodotte da persone diverse tra loro per età, ceto sociale, competenze e credenze.

Tutte queste nuove forme di socialità per la direttrice dell’Osservatorio Caritas di Torino «ci danno la possibilità di comprendere perché le nuove forme di socialità sono indizi importanti per la politica sociale, per far progredire il nostro welfare state», ovvero lo stato di benessere, ma la domanda che oggi bisogna porsi è cosa chiedono le persone per stare bene?

«Farsi questa domanda non rimuove, non nega e non sostituisce i problemi dello stato sociale italiano; l’Italia deve ancora trovare soluzioni per problemi basilari: manca una misura universalistica di contrasto alla povertà, siamo molto lontani dagli standard europei. Farsi questa domanda significa semplicemente abbassarsi fino a sentire cosa chiedono le persone, quali bisogni e quali desideri esprimono rispetto allo stare bene. Ma lo sviluppo non può prendere corpo esclusivamente dal basso, lo sviluppo è un bene comune, pubblico», continua Ciampolini. «Siamo dentro una storia che oggi ci dice che non è più tempo che qualcuno, dall’alto, definisca cosa sia benessere e cosa sia malessere. Sono i cittadini stessi che lo fanno e trovano modi collettivi per stare meglio».
 


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