Formazione
Afghanistan: impariamo a conoscerlo
Tutti ne parlano ma pochi conoscono le dimensioni della povertà e dei disastri che sono stati consumati su questa terra.
di Redazione
Impariamo a conoscerlo
Parlano i numeri, per l?Afghanistan. Un Paese che da 30 anni conosce un?incredibile erosione delle sue già modeste ricchezze. Quando si parla di guerra o di operazione di polizia internazionale, non si ha idea di cosa ci sia nel mirino. Per averla si devono far parlare i numeri, come in queste pagine. Perché i numeri disegnano anche quegli assi strategici che avevano illuso la popolazione di Kabul di aver trovato potenti alleati in grado di garantire un futuro un po? più possibile. Come quando, non molti anni fa, le compagnie petrolifere americane misero su carta un progetto che avrebbe cambiato il destino del Paese, facendolo attraversare da una linea di gasdotti e di oleodotti di rara importanza strategica. È andata diversamente. E oggi, tragicamente, l?unica ricchezza dell?Afghanistan resta la coltivazione dell?oppio, l?unica che si è salvata dal disastro causato dalla distruzione del sistema d?irrigazione.
Qui non ci sono grandi corsi d?acqua. L?asse geostrategico corre da nordest a sudovest, lungo i famosi ?qânats?, canali scavati secoli fa dalle popolazioni locali per raccogliere l?acqua dalle nevi sciolte dell?Himalaya. La guerra ha distrutto questa rete e ci vorranno decenni per ricostruirla.
Resta efficiente la cultura del papavero da oppio, che pure ha bisogno di tante risorse idriche, anche se i Talebani si erano impegnati la primavera scorsa a ridurre drasticamente i terreni destinati a queste coltivazioni, che oggi occupano 70mila ettari nella zona ovest del Paese, pianeggiante e relativamente irrigata. L?Onu, prima dell?11 settembre, aveva fatto una previsione di riduzione da 70 a 17mila ettari. Ma la nuova guerra ha fatto saltare tutti i piani. E, per di più, l?esercito afghano che dovrebbe prendere il potere nel caso di una caduta del regime talebano, è sempre stato favorevole alla coltivazione dell?oppio. Intanto la semina avviene ogni anno a metà ottobre e il mullah Omar, a inizio del mese, aveva diffuso l?ordine ai contadini di procurarsi le sementi.
Anche il futuro si presenta denso di inquietudini: in caso di caduta dei Talebani, si potrebbe riaprire un antico contenzioso con il Pakistan, che riguarda la linea di frontiera di 2mila chilometri, tracciata dai britannici nel 1893 e che nessun governo afghano ha mai riconosciuto. Al di là di questa linea si trovano infatti, in territorio pakistano, 11 milioni di persone di etnia pachtun, la stessa che è egemone con i Talebani a Kabul (i pachtun in Afghanistan sono il 55 per cento della popolazione). E lo spettro di un possibile nuovo stato, il ?Pachtunistan?, è uno spettro che terrorizza il Pakistan.
Qui da 30 anni la storia cammina all?indietro
Parlare dell?economia dell?Af-ghanistan è come evocare un fantasma. Questo territorio di 652mila chilometri quadrati, con circa 25 milioni di abitanti, almeno a credere al censimento fatto nel 1999 dai Talebani, racchiude uno dei Paesi più poveri del pianeta. In un decennio ha visto concentrarsi tutte le catastrofi immaginabili. Ai disastri delle guerre e alle conseguenze delle sanzioni Onu del 1999, si è aggiunta una siccità catastrofica. A partire dal rovesciamento del re Zahir Shah, nel 1973, e dalla salita al potere di un regime comunista di stampo sovietico, il Paese non ha più conosciuto pace. Nel 1996 l?arrivo al potere dei Talebani, sostenuti dal Pakistan, in seguito a una lotta fratricida tra i movimenti che avevano lottato contro l?occupazione sovietica, non ha messo fine alla guerra civile. E neppure ha risolto i problemi endemici di un?economia ancora primitiva.
Al contrario: gli embrioni di infrastruttura messi in opera nel periodo di re Zahir sono stati in gran parte distrutti. Il sistema educativo, chiave di un eventuale sviluppo, è stato totalmente distrutto da vent?anni di guerra. E non partiva certo da buoni livelli perché nel 1979, malgrado la possibilità offerta ai ragazzi di meno di 12 anni di andare a scuola, la metà della popolazione era ancora analfabeta. L?università di Kabul, che aveva conosciuto uno sviluppo notevole, è stata chiusa dai Talebani nel 1996. E, triste ciliegina sulla torta, alle ragazze sono state chiuse le porte di scuole e università. Così oggi l?Afghanistan ha un tasso di analfabetismo tra i più alti al mondo.
Il sistema sanitario non ha avuto una miglior sorte. La maggior parte degli ospedali sono stati distrutti. La penuria di medicine è drammatica, allorché più di 2 milioni di persone sono state ferite e mutilate durante la guerra civile. L?Afghanistan ha, anche in questo campo, i peggiori indicatori al mondo, che si tratti di mortalità alla nascita o infantile. Polio, malaria, diarrea per malnutrizione fanno strage anche perché l?accesso alle cure da parte delle donne è molto limitato: secondo la legge infatti non ne hanno il diritto. L?Organizzazione mondiale della sanità ha piazzato il Paese nella posizione numero 171su 193 nazioni.
Altra vittima della guerra, la rete di comunicazioni interna. Prima dell?invasione sovietica, e grazie all?aiuto internazionale, soprattutto quello degli Stati uniti, erano state costruiti circa 2mila chilometri di strade in asfalto e in cemento, dando al Paese un mezzo moderno di collegamento tra i principali centri urbani e industriali. Nel 1993, gli esperti delle Nazioni unite stimavano che già il 60 per cento di quelle strade aveva bisogno di un intervento.
Lo spazio aereo è ovviamente chiuso e la compagnia di bandiera, Ariana, non può volare all?estero in seguito alle sanzioni Onu del 1999. Inoltre, i suoi conti sono stati congelati, il che le impedisce di comperare il carburante per far volare i suoi apparecchi. Solo le telecomunicazioni sono state migliorate in seguito a un accordo siglato nel 2000 con imprese americane, saudite e cinesi, che ha permesso l?installazione di 12mila linee telefoniche fisse e mobili che collegano l?Afghanistan con 99 Paesi nel mondo.
Ma i progressi in questo campo non possono far dimenticare i gravissimi problemi di rifornimento energetico. Il consumo di elettricità e di gas, che è tra i più bassi al mondo, è aumentato sotto l?effetto artificiale dei bisogni di guerra. I combattimenti, in compenso, hanno danneggiato gran parte degli impianti che oggi non riescono a garantire neppure la metà del fabbisogno.
Il gas rappresentava la metà delle entrate delle esportazioni negli anni 50, ma i giacimenti, situati nel nord del Paese, non sono stati rimessi in funzione. L?Afghanistan dipende quindi più che mai dalla sua agricoltura, che rappresenta il 50 per cento del suo Pil. Ma anche qui la guerra e gli spostamenti di popolazione hanno prodotto disastri a valanga. La produzione di grano era diminuita di un terzo tra il 1979 e il 1987. L?ultimo studio realizzato nel 1988 mostrava che il 30 per cento dei terreni era stato abbandonato e che sulle terre coltivate i rendimenti erano scesi del 35 per cento per la distruzione dei canali d?irrigazione e dell?assenza di concimi e di nuove sementi.
Secondo l?allarme lanciato dalla Fao a inizio ottobre, il fabbisogno alimentare dell?Afghanistan è quantificabile in 52mila tonnellate di derrate al mese, per un ammontare di 230 milioni di dollari, contro le 500 tonnellate di aiuti al giorno distribuiti oggi. C?è inoltre da dire che, da tre anni, una siccità di proporzioni inedite ha colpito l?area che va dal Bangladesh all?Iraq. E in questi Paesi le previsioni parlano di raccolti del 37 per cento inferiori rispetto al 1999.
Uno sbocco verso est per l’oro del Caspio
La guerra, od operazione di polizia antiterrorismo, che gli americani stanno conducendo in Afghanistan ha un obiettivo primario: la liquidazione di Bin Laden. Ma non è esente da retropensieri economici e finanziari. Dal punto di vista americano, infatti, quest?area si è sempre ridotta a una questione molto semplice: come trovare uno sbocco, senza passare né per la Russia né per l?Iran, alle immense riserve di petrolio del Caucaso? Il mar Caspio è ricchissimo, ma soffre della sua mancanza di sbocchi. Dieci anni fa erano due i Paesi, situati sulla sponda occidentale del Caspio, quelli messi in miglior posizione. L?Azerbaigian e il Daghestan (una repubblica della Russia), infatti, hanno progettato due sbocchi, uno attraverso la Russia, l?altro attraverso un oleodotto che arrivi sino al porto turco di Ceyhan, di fronte a Cipro. Un progetto che gli americani sperano di veder concluso nel 2004.
Ma nel frattempo tante cose sono cambiate. E la principale riguarda la destinazione di questo petrolio. L?Europa è un continente che si caratterizza per il progressivo invecchiamento della popolazione che ha fatto una scelta strategica favorendo il gas naturale. Senza contare che mare del Nord e Russia sono fonti petrolifere più facili da raggiungere.
In realtà i mercati dell?avvenire per il petrolio sono Cina e India, con i loro 2 miliardi di consumatori. Così negli ultimi anni gli strateghi hanno iniziato a guardare agli sbocchi verso est. Sulla sponda orientale del Caspio, il Turkmenistan possiede un quinto delle riserve di gas naturale del mondo: 3mila miliardi di metri cubi. Per questo Paese esportare il suo tesoro è una questione vitale: dieci anni dopo la fine dell?Urss il suo Pil è ancora fermo al 60 per cento di quello che era ai tempi dell?impero sovietico. Ma, sempre a est del Caspio, la scoperta più grande riguarda i giacimenti di Kashagan, nel Kazakistan, e che secondo gli esperti contiene una quantità pari a quella di tutte le riserve del mare del Nord. Come portare ai grandi Paesi dell?est che ne hanno bisogno queste immense riserve di energia? In teoria un oleodotto potrebbe arrivare in Cina attraverso lo Sin Kiang, puntando tutto a est. Ma c?è da dubitare che Pechino sia pronta, in un orizzonte di tempo realistico, a finanziare un progetto così colossale.
L?altra soluzione è quella che riguarderebbe l?Afghanistan come territorio di transito di un oleodotto che porta petrolio e gas verso i porti pakistani di Gwadar e di Karachi. Uno sbocco pratico che è sempre stato incoraggiato dal Dipartimento di stato Usa e dalle grandi compagnie petrolifere americane che, in questi anni, hanno cercato di allettare i Talebani davanti a questa vantaggiosa prospettiva. Secondo Ahmed Rachid, autore di un importante studio pubblicato nel marzo 2001 dalla Yale university (Militant Islam. Oil adn fundamentalism in Central Asia), la compagnia californiana Unocal aveva progettato già nel 1994 la costruzione di un gasdotto che poteva portare il gas dei giacimenti di Dauletabad, in Turkmenistan, attraverso il sud dell?Afghanistan, sino al Pakistan.
L?autore racconta: «C?erano altre compagnie in campo, come l?argentina Bridas. Ma Washington e Riad si sono impegnati per convincere tutti i diretti interessati a escludere Bridas. All?epoca Unocal aveva aperto i suoi uffici di rappresentanza nelle zone controllate dai Talebani». Come dire che Unocal, con la protezione del Pakistan, aveva siglato un accordo di principio con i Talebani nel gennaio 1998 che prevedva anche la costruzione di un oleodotto che unisse Chardzou, in Turkmenistan, a Karachi via Afghanistan. Solo quando i Talebani hanno iniziato a tessere un?alleanza troppo scoperta con Osama Bin Laden, gli americani sono stati costretti a una virata.
Così, se l?Afghanistan dovesse restare a lungo impraticabile, l?Iran dovrebbe rappresentare la soluzione più ragionevole. La repubblica islamica potrebbe offrire lo via di sbocco più breve verso i porti del Golfo e in particolare Djask, già perfettamente equipaggiati per raccogliere e imbarcare petrolio. Purtroppo per i grandi petrolieri americani, l?Iran è terra tabù a causa delle sanzioni imposte da Washington. E rimangono a osservare i concorrenti europei, in particolare Totalfina Elf, farsi largo, ritagliarsi fette di mercato, costruire raffinerie e oleodotti. Mentre l?amministrazione Bush farà di tutto, a guerra finita, per permettere ai petrolieri Usa di recuperare le posizioni perdute in questa corsa contro l?orologio sulle nuove strade del petrolio.
Quanto all?Afghanistan, custodisce anche delle discrete riserve. Negli anni 70 i geologi sovietici le avevano valutate in 170 miliardi di metri cubi concentrati nei campi attorno alla città di Shebergan, nella parte nord del Paese controllata oggi da un generale anti Talebani. Le riserve di petrolio sarebbero di 95 milioni di barili. Nel febbraio 1998 i Talebani avevano progettato di riaprire l?Afghan national oil company, ma il progetto è rimasto senza seguito.
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