Welfare

Milano, i sospetti affiliati a Bin Laden scrivono dal carcere

«Le accuse contro di noi sono totalmente infondate, non ci scarcerano per paura dell'opinione pubblica» scrivono i 5 arrestati ad aprile a Milano

di Gabriella Meroni

Essid Sami Ben Khemais, Kammoun Mehdi, Bouchoucha Moktar, Charaabi Tarek e Ben Soltane Adel: questi nomi dei cinque arrestati lo scorso aprile a Milano nell’ambito dell’inchiesta del sostituto procuratore D’Ambruoso tesa a smantellare la cosiddetta “cellula italiana” di Bin Laden. Ora i cinque, trasferiti di recente in carceri diversi, rompono il silenzio e con una lettera-comunicato stampa, distribuita oggi di fronte a una moschea milanese, protestano la loro innocenza e chiedono di essere scarcerati per decorrenza dei termini. «Siamo in carcere da più di sei mesi e ancora, nonostante le richieste dei nostri difensori, non ci hanno mai consegnati i provvedimenti e le ordinanze di custodia cautelare con traduzione nella nostra lingua», scrivono i detenuti, che sostengono inoltre di non conoscere ancora con esattezza quali sono le accuse a loro carico e quali «le prove a riscontro». «A giugno abbiamo chiesto di essere interrogati e ancora niente. Pochi giorni fa», prosegue il comunicato, «ci hanno tutti trasferiti presso carceri del centro-sud Italia (…) per fantomatici motivi di sicurezza (…) ci è impossibile incontrare i nostri difensori e siamo ancora sottoposti a regime di stretto isolamento, situazione davvero inumana per un periodo così lungo». I cinque si trovano oggi detenuti nelle carceri di L’Aquila, Nuoro, Caserta e Livorno. Nonostante affermino di non conoscere le accuse a loro carico, però, i detenuti proseguono difendendosi dall’accusa di appartenere ai gruppi estremisti di Bin Laden. «Ci è stato detto che abbiamo una accusa di associazione a delinquere finalizzata a realizzare attività terroristica in collegamento con altri Stati europei, con l’aggravante di banditismo», scrivono, «ma all’esito di numerose perquisizioni non è stato ritrovato neppure un proiettile a salve». E ancora: «Si parla di noi come terroristi, ma non lo siamo». Quanto al fatto che si trovano in carcere da aprile, i detenuti proseguono con la loro verità, sostenendo che «una nostra scarcerazione in questo periodo sarebbe stata “esplosiva” per l’opinione pubblica e per i mass media. Ancora una volta i terribili fatti americani ci si ribaltano contro, come se fossimo noi i responsabili. Ci siamo già dissociati da quei fatti e ora ribadiamo di esserne totalmente estranei». Il comunicato si conclude con una dichiarazione a favore della libertà della religione islamica, che gli scriventi considerano conculcata in Italia, e con un appello al presidente Berlusconi. «Vorremmo chiedere maggior rispetto e riconoscimento da parte dello Stato Italia per la religione islamica e per la cultura musulmana in genere. Troppi pregiudizi», proseguono, «ci stringono in una condizione di profonda segregazione (…) Invitiamo anche il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi», concludono, «se davvero intende scusarsi e riprendersi da quelle frasi infelici sull’Islam, a fare qualcosa per rendere più facile e possibile la professione della nostra fede». Firmato, Essid Sami Ben Khemais, Kammoun Mehdi, Bouchoucha Moktar, Charaabi Tarek e Ben Soltane Adel. La lettera è stata distribuita oggi a Milano fuori dalla moschea di via Quaranta, nella zona Sud della città.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA