Cultura
Mazzacurati, il suo ultimo film per l’Africa
L'ultima opera edita del regista scomparso è un documentario sulle storie e le attività dei medici del Cuamm presentato alla Mostra del Cinema di Venezia
L'uomo che ha raccontato il nordest, il sensibile narratore dell'Italia minore aveva scoperto, recentemente, l'Africa, girando "Medici con l'Africa", il film documentario sui medici del Cuamm che lavorano in Mozambico. Diceva, con grande modestia, "di essere l'uomo meno adatto" a un'impresa del genere, "io che ho sempre girato i miei film vicino a casa, mi sono ritrovato catapultato a migliaia di chilometri di distanza. Ma quello che ha reso possibile la reale vicinanza con un mondo che mi era estraneo è stata la semplicità di queste persone, il loro non essere eroi”. Il film racconta l'avventura affascinante e difficile di un'organizzazione che, nata 60 anni fa a Padova, ha inviato oltre 1.300 professionisti in 40 diversi paesi di intervento, soprattutto in Africa.
“Da padovano non conoscevo il Cuamm", raccontava, "È una responsabilità mia, ma in parte anche loro. Per questo ho accettato di trovare un modo per raccontare questa storia, fatta di tante piccole storie".
Per Mazzacurati, "veneto di terra e di provincia" come si definisce, si è trattato di un viaggio alla scoperta di un territorio sconosciuto, un'Africa senza alcun esotismo, nella straziante post-modernità fatta di cemento e telefonini. «È stato un lavoro realizzato in modo rapido e impulsivo, senza nessuna strategia né prima né durante le riprese. L'idea che ho seguito è stata quella di raccontare un mondo che non conoscevo man mano che lo scoprivo, in tempo reale», dice Mazzacurati nelle note di regia. «Il film è la storia di un gruppo di persone che si occupa di portare salute in Africa e del loro modo un po' speciale di farlo. È venuto fuori un ritratto collettivo, credo, dove ciascuna individualità è fondamentale, ma dove esiste uno spirito comune molto forte che fa convivere tenacia, capacità di sacrificio con dolcezza e anche ironia. Influenzato da questo loro stile ho cercato anch'io di fare un film 'leggero' per quanto sia possibile su di una materia comunque drammatica come la questione della salute nell'Africa subsahariana».
Alla vigilia della partenza, lo stesso Mazzacurati aveva detto: «Era talmente imprevedibile la mia reazione, era qualche cosa di nuovo e un cambiamento profondo. Le persone che mi conoscono di più erano davvero colpite di questa mia scelta. Sono partito con un sentimento di grande apertura. Ci sono vari modi di affrontare le situazioni. A volte c'è un modo che nasce dalla paura, uno si protegge, cercando di prevedere quello che succederà. C'è un altro modo, che è quello più rischioso, di accettare l'idea di mettersi in gioco e sapere che quello che arriva determinerà il risultato, più che determinarlo tu prima, cercando di orientare quello che succede».
Si era messo in gioco, in questo film, Mazzacurati, realizzando un prodotto bello e non agiografico, mettendo a disposizione, come ha scritto Giuliana Muscio su Il Manifesto, "l'intelligente «umiltà» registica che contraddistingue il suo lavoro di documentarista, ma anche con il suo sguardo allo stesso tempo distaccato e dolce (supportato con la consueta forza visiva dalla fotografia di Luca Bigazzi)".
Un film da vedere, un tassello importante di un'opera di un regista schivo e sensibile. Ad aprile uscirà nelle sale il suo ultimo lavoro, il suo ritorno alla provincia dopo l'esperienza africana. Titolo: La sedia della felicità.
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