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Sud Sudan: “È un disastro, ma non chiamatela guerra civile”

Intervista a Elisabetta D’Agostino, dell’ong Ccm, Comitato collaborazione medica, una delle poche cooperanti tornate nel neonato paese africano dopo lo scoppio degli scontri tra i militari legati al presidente, di etnia Dinka, e quelli dell’ex vicepresidente ribelle, un Nuer. “Decine di migliaia di sfollati dormono sotto gli alberi, il rischio epidemie è altissimo, ma la gente non ne vuole sapere di imbracciare le armi”, racconta

di Daniele Biella

Le ultime notizie sul conflitto armato in corso in Sud Sudan, il più recente Stato del mondo (nato nel 2011 quando si è reso indipendente dal Sudan stesso) sono altalenanti: da una parte la Fao, l’organizzazione mondiale del cibo, denuncia il probabile “aumento di fame e sofferenza umana, che cancella i modesti progressi compiuti sulla sicurezza alimentare negli ultimi due anni”, dall’altra continuano gli incontri tra gli emissari internazionali e i due oppositori, il presidente Salva Kiir e il suo ex vicepresidente ora ribelle, Riek Machar, che ha dalla sua buona parte dell’esercito che si è rivoltato contro Kiir accusandolo di perpetrare atti di pulizia etnica quando quest’ultimo ha accusato il suo ex sodale di un tentativo di golpe.

Mille morti, 325 mila sfollati sono i tragici numeri che dal 15 dicembre a oggi hanno spinto il Sud Sudan nella paura. Come vive questi attimi la popolazione? A raccontarlo dal vivo a Vita.it è Elisabetta D’Agostino, 42 anni, tra la manciata di cooperanti internazionali ritornati al proprio lavoro nel paese dopo l’evacuazione generale dei primi giorni. In particolare, lei si occupa, per l’ong Ccm, Centro di collaborazione medica (già presente in Sudan dal 1983), del coordinamento dello staff e della logistica, in quello che era un progetto di sviluppo legato all'assistenza medica ma che in questi giorni è diventato una risposta immediata all’emergenza in atto. “La gran parte degli sfollati sta arrivato proprio nel villaggio di Minkaman, contea di Aweral nello Stato dei Laghi dove gestiamo con le autorità locali il Centro pubblico di salute: siamo a circa 120mila sfollati, il triplo della popolazione iniziale”.

Qual è l’emergenza primaria?
La malnutrizione e il rischio molto alto di epidemie: stiamo parlando di migliaia di famiglie che, a gruppo di 15-20 ciascuno, vivono sotto i grandi alberi della zona ma che non hanno servizi igienici e modo di cucinarsi il cibo, e utilizzano il fiume vicino, il Nilo, per fare ogni ordine di bisogni, dal bere al lavarsi. Menomale che essendo nella stagione secca malattie come la malaria sono sotto i livelli di guardia, ma con il passare dei giorni la situazione si fa sempre più insostenibile, anche perché arrivano di continuo nuove persone.

 Chi sono?
Soprattutto persone di etnia Dinka, la stessa del presidente Kiir, che scappano dalo Stato confinante di Jongley, a prevalenza Nuer. Lo fanno soprattutto per paura, non essendo ci stati finora, perlomeno in questa zona, episodi di violenza di esercito e ribelli verso i civili. E’ importante sottolineare come, a oggi, non si ain atto una guerra etnica, né tantomeno una vera e propria guerra civile: sì, ci sono due fazioni contrapposte, ma la quasi totalità della popolazione non di fa prendere, e soprattutto non è disponibile a imbracciare alcun tipo di arma. Addirittura ci sono tate di recente delle manifestazioni per la pace, piuttosto partecipate. La gente è spaventata, certo, ma spera si arrivi presto a un accordo tra i due contendenti.

Quali sono le vostre attività principali?
Innanzitutto garantire l’appoggio allo staff locale, che conta su 60 operatori oggi impegnati 24 ore al giorno per tamponare l’emergenza. Continuiamo a distribuire farmaci, supplementi nutrizionali, a visitare persone, soprattutto donne e bambini che sono la maggioranza in queste zone. Prendiamo il materiale da diverse fonti, in primo luogo da altre ong rimaste come Unicef, dalla World health organization (Oms, Organizzazione mondiale della sanità, ndr), mentre stiamo collaborando con Medici senza frontiere. Il governo, comunque, ha reagito bene alla situazione e le strutture sanitarie stanno reggendo alla crisi.

Il Governo risponde al presidente?
Certo, ma è attento ai bisogni di tutta la popolazione. Nelle strutture non si fa distinzione tra Nuer e Dinka, così come anche noi curiamo tutti, compresi soldati fedeli a Kiir e ribelli, come avvenuto a Turaley, contea di Twic, nello stato di Warrap, dove la zona è più calda in questo momento. Anche nella stessa capitale Juba, a parte qualche sparo che si sente ogni tanto, non sembrano esserci problemi di sicurezza rilevanti e nulla che possa far pensare a rappresaglie etniche.

Come vi vede la popolazione locale?
Siamo da talmente tanto tempo nel paese, ci conoscono molto bene e sanno che siamo al fianco della popolazione in ogni situazione, vivendo anche in un compound molto sobrio. La nostra paura più grande in questo momento riguarda gli sfollati, perché se le cose non cambiano rapidamente sarà sempre più difficile il ritorno alle loro case, e un’eventuale fossilizzazione della situazione avrebbe effetti pesantissimi su tutto il villaggio, compresi i residenti.

Le agenzie internazionali sono già arrivate?
Sì, e stanno facendo un buon lavoro. La Croce rossa era già presente da tempo, mentre le agenzie dell’Onu stanno organizzando la distribuzione degli aiuti e soprattutto permettono a noi cooperanti di effettuare in sicurezza gli spostamenti tra una contea e l’altra, mettendo a disposizione dei mezzi collettivi.


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