Cultura

Simonelli: per la Rai 60 anni e si sentono

Il popolare esperto di media fa un raffronto tra la Rai delle origini e l’era del digitale terrestre: «Negli anni del monopolio c’era un aspetto formativo preciso, ora invece regna la confusione. Ti ritrovi uno come Siffredi che ha la presunzione di spiegare il sesso: se uno ha dei problemi in quel ramo, quel programma non fa che peggiorare la sua situazione»

di Redazione

Vale la pena di approfittare del sessantesimo anniversario della tv per imbastire una riflessione sul presente del teleschermo. Giorgio Simonelli è la persona giusta a cui rivolgersi: insegnante di Storia della radio e della televisione alla Cattolica, ha le antenne ben puntate pure sul contemporaneo: su Radio 24 cura con Giovanni Minoli la rubrica Dov’era il canone ieri sera, in cui si cerca di capire se effettivamente i programmi di prima serata meritino il tributo monetario dei teleutenti. 
La Rai fa bene ad autocelebrarsi, visto che negli anni ha dimostrato di essere un’azienda highlander: perennemente accerchiata da nemici, sempre sul filo come un trapezista, eppure al tirar delle somme è sempre lì, viva e vegeta.  Però, oltre a goderci gli stupendi  filmati d’archivio, alcune domande bisogna pur porsele: che intenzioni ha il servizio pubblico? Vuole continuare a compiacere i gusti del pubblico di massa? Sarà per sempre in mano ai potenti di turno, sottovalutando l’importanza di un’informazione pluralista? Sono punti nodali, che con tutta la buona volontà –e con tutta la gratitudine, perché lo sanno anche i sassi che la tv ha unito lo Stivale molto più di Garibaldi- non possono essere trascurati. Nell’intervista qui di seguito, Simonelli sfodera la sua consueta schiettezza, ben nota a chi da anni segue le sue disamine nel programma Tv talk.
 
 
Sono passati sessant’anni, ma la Rai continua ad essere in mano alla politica: c’è speranza che cambi questo trend?
«In tanti dicono di non volere la Rai in mano ai partiti, ma ce ne fosse uno che si degna di proporre un’alternativa. Chi la deve gestire, insomma, questa benedetta azienda pubblica: i sindacati? l’Accademia della Crusca? il Quirinale? Bisogna uscire da questo vicolo cieco, dicano con chiarezza quali soluzioni hanno in mente».
 
Che differenza passa tra i democristiani degli anni del monopolio e i potenti attuali?
«La Rai democristiana aveva uno spessore culturale decisamente maggiore. Molti anni fa, durante un convegno a cui partecipai, il giornalista Elio Sparano raccontò come la DC reclutava i  funzionari: al primo concorso, pilotato dai cattolici, vinsero  Furio Colombo, Gianni Vattimo e Umberto Eco. Allora Sparano, giustamente, disse: “Viva le raccomandazioni, se poi vengono premiate personalità così meritevoli”.  Voglio dire che la Rai  di quegli anni era sicuramente bigotta, però era anche molto più meritocratica».
 
La privatizzazione della Rai, di cui periodicamente si parla, porterebbe con sé un miglioramento nella qualità dei programmi?
«Sono assolutamente contrario alla privatizzazione della Rai in blocco. Si può ragionare sulla privatizzazione di una sola rete, come è avvenuto in Francia, ma un settore pubblico consistente è segno di un paese civile.  E difatti, c’è in tutti i paesi civili».
 
Non diciamo la sua età professore, ma sappiamo che è un po’ più anziano della tv italiana. Qual è il suo primo ricordo televisivo?
«Credo sia un Musichiere. Il televisore in casa mia è arrivato nel ’58. Lo ricordo perfettamente perché mio padre era appassionato di calcio –come me del resto- e lo comprò in occasione dei Mondiali di Svezia. Prima del ‘58 ho dei vaghi ricordi di qualche sceneggiato, visto a casa di amici».
 
“Educare, intrattenere, informare”:  era la triade della BBC, ereditata dalla Rai del monopolio. Non crede che la tv di oggi, col suo infinito proliferare di canali tematici, assolva in misura anche maggiore questi tre compiti?
«Per quanto riguarda l’informare siamo fin troppo coperti, specialmente in Italia c’è un’ipertrofia dell’informazione. Sull’intrattenimento, idem. È la parte educativa che mi lascia perplesso: sicuramente ci sono molti elementi educativi sparpagliati, il problema è che manca un progetto. Progetto che viceversa  era ben presente nella tv delle origini: c’era un’unità di intenti tra i vari autori, tutti inseguivano il medesimo fine.  Ora invece ognuno va per conto suo, è tutto molto confuso e non si capisce quale sia lo scopo finale.  Faccio l’esempio della trasmissione di Rocco Siffredi, che dovrebbe insegnare alle coppie a recuperare la libido perduta: ora, se uno ha qualche problema nel sesso, dopo aver visto questo programma smetterà di praticarlo del tutto, perché è davvero di una noia mortale ».
 
I bambini e la tv. Peppa Pig è una buona tata?
«Ottima. Io ho due nipotini, quindi la mia è una testimonianza credibile non come studioso ma come nonno. Credo che Peppa Pig sia un fenomeno molto interessante, nato da un’operazione molto acuta: gli ideatori hanno osservato i disegni dei bambini e a partire dai disegni hanno costruito le immagini del cartone. Poi è molto piacevole: semplice ma creativo, davvero un buon prodotto».
 
Gli adolescenti. MTV è un buon compagno di viaggio per chi si accosta all’età adulta?
«Paradossalmente MTV è una rete per adolescenti che deve decidersi a diventare grande. Si compiace del fatto di essere non definitivo, dovrebbe smetterla di seguire le mode ed essere una rete un po’ più solida. Servirebbe un po’ più di solidità, altrimenti più che sperimentale il risultato è precario».
 
C’è chi sostiene che la tv ci abbia reso più intelligenti: il fatto di avere una finestra sul mondo ci avrebbe consentito di diventare più reattivi, più sensibili. Condivide questo assunto?
«La televisione ci ha reso più intelligenti, ma bisogna essere intelligenti per fruire della tv di oggi così piena di stimoli. La Rai delle origini avvantaggiava le persone meno intelligenti, perché le accostava progressivamente a contenuti sempre più complessi. Mio nonno, per dire, era un calzolaio, un uomo dell’ Ottocento, però la sera guardava Pirandello. Oggi per essere resi intelligenti dalla televisione bisogna avere un bel retroterra culturale, sennò si va un po’ allo sbaraglio».
 
Il successo dei talent show  è legato anche alla cattiveria che c’è dentro? Il meccanismo eliminatorio, i giurati che sparano a zero sui concorrenti…
«C’è una moda imposta dal film Ufficiale e gentiluomo: la violenza nell’educazione. Dagli anni Ottanta in poi, forse per reazione al cosiddetto permissivismo, è tornata nei progetti educativi la durezza, la rigidità, l’aggressione. Credo che i talent sfruttino un po’ questa corrente».
 
Un varietà alla Studio uno, alla Milleluci, è morto per sempre oppure è solo in fase dormiente, pronto a rinascere un domani più smagliante di prima?
«È morto per sempre perché  le prove di Studio uno duravano dal lunedì al sabato mattina: la tv di oggi non consente più di avere questi spazi di manovra, cioè non si può più avere uno studio a disposizione sette giorni su sette. Poi c’è il problema dei talenti: sono pochissimi al giorno d’oggi quelli che possono fare un varietà bello come Studio uno. Uno è Fiorello, ma può fare solo quattro puntate. La cosa funziona solo a livello di evento, non più come programmazione di routine».
 
Diciamo la verità, professore: le Kessler con le gambe coperte da calze opache erano più sexy delle vallette “desnude”, che oggi imperversano su tutti i canali. Non trova?
«Senza dubbio, non c’è nulla di più erotico della censura. Il 90% del cinema classico americano nasce dal Codice Hays, che imponeva tutta una serie di restrizioni: il risultato è che ha consegnato alla storia del cinema una serie di scene allusive, molto più sensuali dell’erotismo esplicito . Il film di Buñuel  Viridiana offre un esempio di censura dagli effetti benefici. Nella scena finale i protagonisti avrebbero dovuto copulare. La censura ebbe da ridire, e allora il regista spagnolo replicò: “Non posso mica farli giocare a carte…Anzi, sa che c’è? Li faccio proprio giocare a carte”. Ed è stato meglio così: il fascino del finale di Viridiana sta tutto lì, nel fatto che la gente coglie l’allusione».
 

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