Formazione

“Speriamo che me la cavo”: addio al maestro D’Orta

È morto a 60 anni Marcello D'Orta, il maestro elementare autore di "Io speriamo che me la cavo"

di Redazione

Che la scuola fosse “sgarrupata” fu forse il primo a dirlo, attraverso la voce dei suoi bambini. E quel titolo azzeccato, sempre tratto pari pari da quei sessanta temi dei suoi alunni, “Io speriamo che me la cavo” è diventato il simbolo di una sorta di “rivoluzione dolce” e di una rinnovata attenzione a quei bambini che quella scuola sgarrupata rischiava di perdere per strada. Sono passati 23 anni dall’uscita di quel piccolo libro che vendette 2 milioni di copie e diventò pure un film (sulla pagina facebook del film si possono leggere anche i temi dei ragazzini): tutti se lo ricordano e ancora oggi i seminari sulla dispersione scolastica, nei titoli, a quel lirbo si rifanno: “Io speriamo che me la cavo”. Marcello D’Orta, il maestro elementare che scrisse quel libro, è morto questa notte a 60 anni nella sua casa all’Arenella.

È morto di cancro, una malattia con cui combatteva da un paio d’anni: «Quando, alcuni mesi fa, mi fu diagnosticato un tumore, il primo pensiero fu: la monnezza», aveva confidato a Quotidiano.net. «Donde viene questo male a me che non fumo, non bevo, non ho – come suol dirsi – vizi, consumo pasti da certosino? Mi ricordai, in quei drammatici momenti che seguirono la lettura del referto medico, di recenti dati pubblicati dall’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui era da mettersi in relazione l’aumento vertiginoso delle patologie di cancro con l’emergenza rifiuti. Così sono stato servito: radiochemioterapie, due interventi chirurgici, altro, tant’altro. A chi devo dire grazie? Certamente alla camorra. I rifiuti si accumulano perché la camorra impedisce di raccoglierli, sabota gli impianti di raccolta, fa scioperare i netturbini, corrompe i funzionari dei controlli». 

D’Orta stava lavorando a un libro su Gesù: le sue giornate, aveva raccontato all’Ansa, erano diventate «buie come quelle che spesso quando ero piccolo, nel Vico Limoncello, nel cuore della città antica, vivevo come un incubo… Ma a quei tempi c’era un motivo ‘fisico’. Nel senso che la stradina era così stretta che la luce del sole non filtrava e in una famiglia con dieci componenti era anche complicato conquistarselo lo spazio; ora rischio di non vederla più perché il male è duro da combattere». E allora? «Allora penso di aver trovato l’antidoto giusto: scrivere, scrivere, scrivere».
 


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