Volontariato

Canto senza spartito accanto a chi muore

È in corso a Bologna il XX Congresso nazionale sulle cure palliative, che vedrà anche molte sessioni dedicate al volontariato. Attilio Stajano presenterà il suo libro, dove racconta cosa vuole dire essere volontario accanto a chi sta morendo

di Sara De Carli

Attilio Stajano è stato ricercatore industriale, ha amministrato programmi di ricerca alla Commissione europea, ha insegnato all’Università al Georgia Tech e a Bologna. Era avvezzo a scrivere libri di ricerca, innovazione e politica industriale. Il libro che domani presenterà a Bologna è di tutt’altro genere. All’interno del XX Congresso Nazionale della Società Italiana di Cure Palliative, che ha aperto ieri a Bologna (in allegato il programma), Stajano parlerà del suo “L’amore, sempre. Il senso della vita nel racconto dei malati terminali” (ed Lindau). A Bologna si parlerà parecchio di volontariato, in apposite sessioni del Congresso curate dalla Federazione Cure Palliative. Stajano infatti dal 2008 passa due o tre pomeriggi alla settimana all’interno di un ospedale di Bruxelles, dove vive: fa il volontario nel reparto di cure palliative e accompagna gli ultimi giorni di vita dei malati terminali. Scoprì questo mondo per esperienza personale, negli anni Ottanta, quando la sua compagna di allora si ammalò di un tumore: un anno «di calvario», dice ancora oggi, raccontato nel libro con delicatezza, trascorso con il solo desiderio di rispettare la volontà di Inge: «Quanta energia ci vuole per morire! Ma la tuo fianco ce la farò. Ti chiedo una cosa sola: mi devi promettere che mi terrai a casa».

Dopo tanti anni, quell’esperienza è tornata a galla?
Mi aveva profondamente cambiato, mi aveva lasciato il desiderio di voler capire cosa succede in una persona che sa che si sta avvicinando alla morte. Quella volta in realtà non eravamo stati accompagnati da volontari in cure palliative, c’era solo un’associazione che si occupava più che altro si supportare la parte di assistenza domiciliare e di fare consulenza ai medici di famiglia. Mi sono avvicinato all’accompagnamento dei morenti per stare vicino ai miei anziani genitori, negli anni 90, e ho fatto una formazione specifica. Quando ho smesso di lavorare ho pensato di condividere con altri quello che avevo imparato.

Quando lei ha iniziato, ad accompagnarla c’era Tunç, un volontario senior, di cui lei parla nel libro. Oggi, quando tocca a lei fare da tutor, cosa spiega?
Nessuno può dire a un nuovo volontario cosa deve dire, non ci sono ricette. Non è facile. Per questo i nuovi volontari iniziano sempre con una presenza attiva o dove c’è la lucidità di fare ragionamenti sul significato della spiritualità, della vita, del dolore. Lì il compito del volontario è aiutare il malato a ritrovare le cose belle della sua vita, l’amore che si vissuto, compresi gli amori finiti male, recuperare un patrimonio di gioia e di amore, che aiuti a non colpevolizzarsi per ciò che si è fatto di meno bene e riconciliarvisi. Solo successivamente i nuovi volontari vengono affiancati ai morenti, là dove quello che bisogna fare è “fare niente”. Bisogna stare in silenzio, entrare in un sincronismo di respiri, fare che quel lamento diventi una parola. È questione di posture, atteggiamenti, sguardi. In questo volontariato bisogna imparare a giocare senza spartito, arrivare a uno stato di empatia che consente a tutti di dire la verità del proprio sentire. La falsità è il peggior nemico dell’accompagnamento di un malato, non puoi permetterti di fare promesse o prospettare remissioni, puoi solo dire “io ci sarò, io ti accompagno”.

In Belgio, diversamente che in Italia, si può chiedere l’eutanasia. Le è mai capitato di accompagnare una persona che l’avesse fatto?
Sì. La mia esperienza è che nella maggior parte dei casi le persone cambiano idea quando l’accompagnamento lenisce la sofferenza psicologica di non servire più a niente e a nessuno, quando si riscaldano le relazioni famigliari. Però non importa il cosa ma il come: anche quell’esperienza può essere vissuta come accompagnamento e solidarietà. In Italia non si è ancora capito che esiste la possibilità di vivere spiritualmente anche l’eutanasia, infatti qui ci sono gesuiti che accompagnano i pazienti che l’hanno chiesta. Con questo non intendo dire che all’Italia serva una legge sull’eutanasia.

Da fuori questo volontariato fa molta paura, sembra difficilissimo. Lo è?
C’è una cura enorme della formazione, questo sì, e in ospedale c’è una supervisione dei volontari da parte di uno psichiatra, con un colloquio una volta al mese. Però devo dire che è un’esperienza estremamente arricchente, di ricarica, perché ti fa scoprire il valore della vita e del tempo. Chi ha le ore contate ti insegna a non perdere tempo in cose e in incontri futili. E poi ho imparato a stare con i vecchi, che non hanno affatto bisogno di qualcuno che gli riempia le giornate di attività o li porti in giro in carrozzina. Vogliono solo riscoprire frammenti di vita: basta una vecchia foto o una canzone…


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