Mondo
Chi soccorre i soccorritori?
New York: Sembrava che la nazione dovesse ai soccorritori riconoscenza infinita. Invece molti volontari scoprono di non avere diritto allassistenza sanitaria. da New York; Carlo Piano
di Redazione
Qualcuno ha scritto che il primo esame che viene fatto negli ospedali americani è la radiografia della carta di credito. Ci piacerebbe controbattere che è tutto falso, che quel qualcuno ha preso una cantonata, che questo sistema sanitario non sempre dà peso ai dollari. Che almeno in occasione della tragedia del World trade center i severi revisori di bilanci hanno chiuso un occhio. Purtroppo non possiamo. Proprio in questi giorni stanno arrivando i conti delle spese mediche ai soccorritori rimasti feriti mentre cercavano di dare una mano tra le rovine delle Twin towers. Migliaia di conti, milioni di dollari che non sempre verranno pagati dalle assicurazioni. Alcuni la polizza non l avevano neppure, altri verranno rimborsati solo parzialmente, altri ancora non erano coperti perché si sono cacciati nel pericolo di propria volontà. Giusto o sbagliato, non sta a noi giudicarlo. Resta il fatto che molte associazioni benefiche, tra le quali si distinguono quelle religiose, stanno raccogliendo fondi per soccorrere i soccorritori. Ma forse per spiegare questo paradosso americano, più di scrivere tante parole, è meglio raccontare la storia della signora Cathy Nash, 50 anni, di Brooklyn, professione infermiera.
La mattina dell?11 settembre si trovava con la figlia Jennifer Petrillo, 29 anni, anche lei infermiera, quando dalla finestra della loro casa a Mill Basin hanno visto l?inferno che si era scatenato sull?altra riva dell?Hudson. Hanno acceso la televisione per saperne di più, poi Jennifer non ce l?ha più fatta a stare zitta: «Mamma, dobbiamo muoverci adesso. Quella gente ha bisogno di noi». Un attimo dopo sono uscite e, mostrando le loro tessere da infermiere a ogni barriera della polizia, si sono fatte largo tra la folla che fuggiva e addentrate nell?immenso polverone nero. «Quasi non riuscivamo più a vedere la strada da quanto ci bruciavano gli occhi per il fumo. Siamo arrivate prima noi della National Guard», ricorda oggi Cathy, seduta su una sedia a rotelle. Si sono trovate davanti una montagna di detriti, gente terrorizzata e confusione. La signora Nash ha cominciato a gridare, senza rivolgersi a nessuno in particolare: «Siamo infermiere, siamo qui per aiutare. Per favore lasciate che ci rendiamo utili». Un capitano di polizia ha messo sulle loro teste due elmetti da cantiere e hanno preso a distribuire bottiglie d?acqua, maschere, guanti e occhiali protettivi ai pompieri. A un certo punto un vigile del fuoco ha urlato: «Un uomo nel buco, un uomo nel buco».
C?era un giovane, vestito in giacca e cravatta, intrappolato tra le macerie. «Respirava ancora, ma era ferito», racconta Jennifer. Un medico ha detto alle due donne che bisognava assolutamente trovare un chirurgo, che a quello sventurato era necessario amputare la gamba sotto il ginocchio, perché se no non si poteva tirarlo fuori e sarebbe morto dissanguato. Madre e figlia hanno preso direzioni diverse per cercare in quell?indescrivibile caos un chirurgo. La signora Nash ne ha scovato uno appena arrivato al Ground zero, era vicino alla rovine di quello che poche ore prima era un Burger King. Si sono diretti di corsa dal ferito. «Presto, dei lacci emostatici, datemi dei lacci emostatici e una morsa», ha detto il chirurgo mentre si apprestava a eseguire l?operazione in mezzo a una distesa di calcinacci sporchi e ancora fumanti. Ed ecco che Cathy è di nuovo partita alla ricerca, ed ecco che Cathy ha di nuovo trovato quello che serviva in un?ambulanza della Croce rossa. Ma, quando stava ormai terminando di scalare la montagna di detriti per tornare indietro, è scivolata su una lastra di acciaio e si è rotta la gamba destra. La figlia ha preso morsa e lacci dalle mani della madre e li ha consegnati al medico. Quell?uomo in giacca e cravatta (riferiamo per dovere di cronaca) è sopravvissuto, anche se con una gamba in meno. «Ho preso del ghiaccio, ho cercato di farle passare il dolore, ma mia madre non poteva continuare a stare lì», dice Jennifer. «Subito non avevamo capito che si trattasse di una frattura. Siamo andate a casa dove ci aspettava mia figlia Cristina, che ha appena compiuto cinque anni. Durante la notte la gamba è diventata blu, ho chiamato un?ambulanza e mamma è stata ricoverata in ospedale».
Niente di grave, un gesso, sul quale Cathy ha disegnato una bandiera americana, e 24 ore trascorse in un letto sotto osservazione. Niente in confronto a quello che hanno sofferto le centinaia di ustionati scampati per miracolo alla strage dell?11 settembre. Ma il punto è che questa coraggiosa infermiera non era assicurata, e che l?agenzia d?assistenza domiciliare presso la quale è impiegata ha rifiutato di coprire le spese mediche di 1.500 dollari. Anzi, non le verserà neppure lo stipendio per le sei settimane che occorrono per la convalescenza. Madre e figlia sono entrambe divorziate, non ricevono alimenti e i pochi soldi che avanzano dal budget familiare servono a pagare la retta della scuola cattolica dove studia Cristina. Insomma, un disastro completo, la sconfitta della generosità. Se non fosse che proprio la preside della St. Bernard school, Linda Miele, ha deciso di contattare le istituzioni benefiche della diocesi di Brooklyn e del Queens raccontando il gesto eroico di questa donna. Adesso ci penseranno loro a pagare l?ospedale e a darle quel tanto che basta a tirare avanti fino al giorno in cui potrà riprendere il suo posto.
Come lei sono in tanti, trecento secondo le stime dei quotidiani newyorkesi, quelli che hanno prestato aiuto e adesso ne hanno bisogno a loro volta. Non tutti purtroppo hanno avuto la stessa fortuna di Cathy Nash che, non sappiamo se per fede o riconoscenza, ha disegnato sul gesso, accanto alla bandiera a stelle e strisce, anche un crocefisso.
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